Il dibattito sulla chiusura delle librerie è una questione borghese? | Note di re-confinement #2
“Reading is the new footing”?
Parigi | La Francia è di nuovo in lockdown. Questo re-confinement è per ora light, sempre per usare un anglicismo, perché si va al lavoro — eccezione fatta per chi può farlo da remoto — perché le scuole sono aperte perché i medici ricevono pazienti, perché i trasporti pubblici funzionano normalmente. Perché carta igienica e farina sono presenti all’appello sugli scaffali dei supermercati. E anche perché, ad oggi, non ci sono controlli di polizia ad ogni angolo di strada, nonostante un’attestazione sia necessaria per ogni spostamento.
Molti commerci “non essenziali” sono quindi chiusi (qui la lista completa): va detto che è molto, ma molto più lunga la lista di quelli che restano aperti. Tra i non essenziali ci sono appunti le librerie, classificate tra i “prodotti culturali” (insieme alla vendita di Cd, Dvd, videogiochi), i parrucchieri e i fioristi, per esempio. È tuttavia possible il — altro anglicismo — “click and collect” e, per alcune librerie, la consegna a domicilio nel raggio di due chilometri.
Le proteste dei piccoli commercianti per concorrenza della Grande distribuzione hanno avuto come risultato che il Governo impedirà alle grandi catene e ai supermercati di vendere prodotti che fanno parte dei “commerci non essenziali”: quindi alcuni reparti sono chiusi, ed alcuni prodotti ritirati. Suona ridicolo (è lo è) ma comprensibile, in assenza di misure che coprano le perdite. Per esempio dai supermercati verranno ritiratati i prodotti di make-up.
Il dibattito sui social e sulla stampa
La chiusura delle librerie ha aperto un dibattito piuttosto animato (ad esempio su Twitter #librairiesouvertes): il valore della cultura contro le forze del male (battuta mia, ndr), la lettura contro l’isolamento, la cultura contro la depressione che il lockdown si porta dietro. E sul ruolo che le librerie hanno nella vita di quartiere, anche.
Una tribuna pubblicata su Le Monde firmata da 250 editori/editrici, scrittori/scrittrici e librai/e il 30 ottobre 2020 sostiene che «le librerie giocano un ruolo unico nell’animazione del nostro tessuto sociale e della vita di quartiere, per la trasmissione della cultura e del sapere, per il sostegno alla creazione letteraria (…). Le librerie sono in oltre uno dei baluardi più efficaci contro l’ignoranza e l’intolleranza». Il testo, all’attenzione del Presidente della République, è intitolato «Aprire tutte le librerie, e tutte le biblioteche, è fare la scelta della cultura», anche se la questione delle biblioteche non è vi è di fatto trattata.
«La libreria è un luogo magico di incontro tra un lettore e un autore; è impossibile pensare che vengano chiuse, è come se smettessimo di illuminare la città».
Antoine Gallimard, Twitter
Esisteno, inoltre, una petizione on line, un ricorso al Consiglio di Stato, un appello alla disobbedienza civile di Philippe Claudel, membro de l’Académie Goncourt e decide e decine di appelli.
La scelta della cultura, la scelta della prossimità
Se prendiamo un po’ di distanza e qualche numero ci sono altri aspetti da considerare.
- librerie in Francia: 3.200 (dati del 2016)
- biblioteche: 16.000 (dati Ministero della Cultura)
- fioristi: 15.000
- parrucchieri: 16.000 (dati che arrivano da un articolo di Slate)
Di queste 3.200 librerie, dice Christine Laemmel su Slate, circa 935 sono in Île-de-France (la regione di Parigi e banlieue), di cui 700 a Parigi stessa. Nel V° e VI° arrondissement di Parigi ci sono oltre 100 librerie. Ciascuno.
Il 52% di coloro che acquistano libri — e che hanno accettato di rispondere a un sondaggio, perché questo dicono i sondaggi — dichiara di non farlo in libreria semplicemente perché non ce ne sono a una distanza facilmente raggiugibile.
«E’ possibile comprare sigarette. Resta invece vietato, per ragioni sanitarie, andare in libreria»
Nella regione Nouvelle-Aquitaine erano recensite 79 librerie nel 2013, in Rhône-Alpes 200, di cui 60 o a Lione. A Marsiglia ce ne sono circa 30, ma 28 di queste sono in centro città. In molte zone della Francia è necessario fare 10, 20 o 30 km per trovare una libreria, motivo per il quale la Grande distribuzione diventa la sola scelta. O Internet.
Anche tra i lettori più fedeli, coloro che vanno in libreria sono una minoranza (in viola nel grafico sotto, che arriva dal Sindacato della Libreria francese).
Un sondaggio del 2017, realizzato su un campione di 1000 persone, racconta che i francesi leggono in media 20 libri l’anno; allo stesso tempo la vendita annuale è di 430 milioni di libri, ovvero 6 a testa, facendo un calcolo impreciso e decontestualizzato.
Come spiegare quindi tutta questa attenzione (e l’enorme mediatizzazione) all’apertura o meno delle librerie? Slate si domanda se “Reading is the new footing”.
“Reading is the new footing”, o del nostro ombelico
Olivier Ertzscheid, professore in Scienze dell’Informazione e della Comunicazione (che cito o traduco spesso) solleva il problema in queste termini:
«La battaglia per i libri, quella per il jogging o per i ristoranti sono battaglie borghesi. La maggior parte di queste battaglie mediatiche che prendono vita durante i lockdown sono l’eco di una società borghese che si guarda mentre corre, legge o mangia al ristorante. La legione di corridori che ha dibattuto durante il primo confinement non ha nulla da invidiare a quella dei lettori che dibatte ora. Riflettono soprattutto la necessità di appartenere ad una coscienza di classe. Per essere riconosciuto come borghese tra i miei simili devo essere al corrente, devo dire che leggo. Il nostro desiderio di vedere le librerie aperte è il desiderio dello spettacolo del nostro piacere borghese».
Ora, al di là della provocazione evidente nel definire la lettura un’attività “borghese” tout-court — non perché non possa essere vero, ma perché resta comunque parziale, incompleta e decontestualizzata — la sovra-esposizione mediatica di questo dibattito pone qualche domanda.
Dice Ertzscheid «è essenziale correre o leggere quando tante altre attività essenziali sono soddisfatte». «Capiamoci», continua, «anche le classi lavoratrici leggono, vanno anche al ristorante o a correre. Certamente. Ma la sociologia delle lotte è tanto deterministica quanto i fatti sono ostinati. Queste battaglie per la libreria, il jogging e il ristorante sono soprattutto battaglie borghesi. Gli altri si mettono maglioni più spessi per non alzare il riscaldamento in inverno e cercano di fare (davvero) la spesa “essenziale” nei supermercati alla fine della loro giornata di lavoro da non-confinati».
Personalmente, non metterei sullo stesso piano la corsa (o lo sport) e, non tanto la lettura come attività, quanto per l’approccio: la fruizione in libreria si fa tramite l’acquisto. Correre non costa nulla, o quasi. Il dibattito sull’apertura delle librerie rimanda (anche) a un dibattito sul consumo. Stiamo parlando di commerci. Per quanto sia più nobile comprare Baudelaire che una Coca-Cola, sono entrambi acquisti.
Perché non c’è un dibattito di questo tipo sull’apertura di biblioteche e mediateche? In questo senso il dibattito sulle librerie è — anche, un po’, non solo — un dibattito sul nostro ombelico.
«In qualche modo», continua, Ertzscheid « la borghesia cancella dal campo sociale i bisogni delle persone confinate della classe operaia, che continuano a pulire gli uffici, a cambiare le lenzuola negli ospedali, che continuano a servirci dietro il plexiglas nei fast-food, e che, magari, non vogliono necessariamente aprire le librerie dove sono impiegati. I lavoratori in prima linea di cui tanto si è parlato durante il primo confinement, dei loro bisogni, in gel, maschere, in personale sanitario, in riposo, in riconoscimento».
Ma ancora, dove si ferma — o dove comincia — il dibattito su quello che è ritenuto essenziale durante un’epidemia? Che spesso è ben visibile agli occhi, di tutti.
La cura, per tutti, gratuita. Test, tracking, dare la possibilità di isolarsi se si sospetta di essere infetto.
Alloggio, per tutti. In inverno soprattutto. Eppure alle porte di Parigi c’è un campo di rifugiati che conta 2500 persone. Erano 400 un mese fa. 2000 la settimana scorsa.
Non cito questi due esempi per fare/farmi la morale. Personalmente, se le librerie fossero aperte probabilmente ci andrei. Come mi farebbe tanto piacere che Edoardo, il mio parrucchiere, potesse tagliarmi i capelli perché sembro un carciofo. E, paradossalmente, in maniera non utile e non essenziale, se potessi scegliere, sceglierei Edo.
Perché in casa — li ho contati approssimativamente — ho 40 libri che non ho ancora letto: erano 39 fino al giorno prima del re-confinement, quando ho comprato l’ennesimo alla libreria del Pompidou pensando che “tanto avrò tempo di leggere”. Essenziale?
Ultima questione, sicuramente non esaustiva, né completa, ma sulla quale questa discussione mi fa riflettere.
Il dibattito sull’apertura o meno delle librerie, sulla loro esistenza stessa, è in effetti centrale in una battaglia contro giganti come Amazon. La questione è evocata nelle discussioni, ma solo lateralmente (per esempio nel testo della petizione), come un motivo che si aggiunge a quello, primario, dell’importanza della cultura.
Come se Amazon vendesse solo libri, Cd e Dvd. Come se Amazon non impiegasse persone che stoccano, sistemano, consegnano, in condizioni dove la distanza fisica è spesso impossibile. Come se Amazon non facesse parte dello stesso sistema che ci porta a casa la cena in bicicletta sottopagando, ancora una volta, la classe lavoratrice non confinata per la quale quei 4/5 o 6 euro all’ora sono sì, essenziali.
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Per i numeri: dati della Federazione francese di atletismo dicono che nel 2015 si contavano 12 milioni di runner in Francia e, in generale, il 58% dei francesi dichiara di fare sport una volta a settimana.
Segnalo qui le spiegazioni di una libraia, che ritiene che no, non si tratta di un’attività essenziale, che le condizioni di lavoro non sono sicure e che è contenta di poter chiudere.