Psicologia della Peste e della Paura, Jean Delumeau | Note di (de)confinement #17

Francesca Barca
7 min readMay 30, 2020

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Aubervilliers 29 mai 2020

La peste bubbonica in un’illustrazione della Bibbia di Toggenburg (1411, Wikimedia)

Jean Delumeau è morto all’inizio del 2020 — quanto sarebbe stato illuminante ascoltarlo per noi, quanto sarebbe stato per incredibile per lui vivere questo momento storico — è stato professore di Storia delle mentalità religiose nell’Occidente moderno al Collège de France.

Nel 1978 è uscita la sua opera forse più famosa, “La Peur en Occident (XIVè-XVIIIè) : une cité assiégiée” (in italiano, “La paura in Occidente”) dove Delumeau analizza le paure che hanno attraversato l’Occidentale tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna. Tra queste il mare, le tenebre. E la peste, appunto.

Le citazioni qui sotto ricostruiscono gli effetti sociali di una epidemia: dubbi, negazione, rumori, quarantena, ricerca dei colpevoli, solitudine…

Senza caricaturare le similitudini, il passato o il presente, un testo come questo ci racconta che siamo umani (un po’) alla stessa maniera.

La negazione e/o il ritardo nel prendere misure…

… delle autorità

« Quando il pericolo del contagio appare, la prima cosa è cercare di non vederlo. Dalle cronache relative ai periodi di peste emergono numerose le negligenze delle autorità nel prendere le misure necessarie che imporrebbe l’imminenza del pericolo (…). Ovviamente troviamo delle giustificazioni razionali a un’attitudine di questo tipo: non voler mettere nel panico la popolazione (…) e soprattutto non interrompere le relazioni economiche con l’esterno. Perché per una città la quarantena significa difficoltà di approvvigionamento, crollo degli affari, disoccupazione, probabili disordini nelle strade, ecc.

Fin quando i morti causati dall’epidemia sono ancora in un numero limitato, si può ancora sperare che regredisca da sola prima di aver devastato l’intera città.

Ma, andando più nel profondo di questi argomenti, confessabili o inconfessabili che siano, ci sono delle motivazioni meno coscienti: la paura profonda della peste porta a ritardare il più possibile il momento di affrontarla, di guardarla in faccia (…).

Così i medici e le autorità cercavano di ingannare se stessi. Rassicurando la popolazione, essi a loro volta si rassicurano. (…)

Nel maggio e giugno del 1599, mentre la peste imperversava in tutta la Spagna settentrionale — e quando si trattava di altri, non abbiamo paura di usare il termine esatto — i medici di Burgos e Valladolid facevano diagnosi tranquillizzanti dei casi osservati nelle loro città: “Non è una peste in quanto tale”; “è un male comune”; “febbre, difterite, febbre persistente, punti di sutura, catarri, gotta e simili… Alcuni hanno avuto delle bolle, ma… (che) guariscono facilmente”».

… e della popolazione

«Gli stessi atteggiamenti collettivi si ritrovano a Parigi durante il colera del 1832. Il giorno della metà di Quaresima, Le Moniteur ha annunciato la triste notizia dell’epidemia che stava iniziando. All’inizio questo giornale, considerato troppo ufficiale non fu preso sul serio. Racconta H. Heine: “Il sole splendeva e il tempo incantava, i parigini sono scesi con giovialità sui boulevards, dove si vedevano persino maschere che si facevano beffe della paura del colera. La sera dello stesso giorno, i balli pubblici erano più affollati che mai” (…).

Nominare il male sarebbe equivalso ad abbattere l’ultimo muro che lo teneva sotto controllo (…).

A Lille, lo stesso anno, la gente si rifiutava di credere che il colera si stesse avvicinando. All’inizio la consideravano un’invenzione della polizia».

Il panico e l’esodo

«Venne un tempo, però, in cui non si poteva più evitare di chiamare il contagio con il suo orribile nome. E fu allora che il panico travolse la città. (…) Di fronte all’impotenza riconosciuta della medicina, il rimedio più sicuro era prendere la via della fuga (…).

I ricchi, naturalmente, sono stati i primi a partire, creando il panico collettivo. Sono iniziate le code negli uffici che rilasciavano i lascia-passare e i certificati sanitari, così come la congestione delle strade, piene di carrozze e carri (…). L’esempio delle classi abbienti è stato immediatamente seguito da tutta una parte della popolazione (…).

Un medico di Malaga scrisse durante la peste del 1650: “Il contagio divenne così furioso che… gli uomini cominciarono a fuggire come bestie selvagge nelle campagne; nei villaggi però questi fuggitivi vennero accolti con le armi. Alcune stampe inglesi dell’epoca raffigurano “moltitudini in fuga da Londra” via acqua e via terra. D. Defoe sostiene che nel 1665, 200mila persone (su meno di 500mile) lasciarono la Capitale […]”. »

La quarantena

«Ecco la città assediata dalla malattia, messa in quarantena, se necessario controllata dall’esercito, confrontata con l’angoscia quotidiana e costretta a uno stile di vita completamente diverso dalle abitudini.

Il quadro famigliare è abolito: l’insicurezza non nasce solo dalla presenza della malattia, ma anche da una distruzione degli elementi che fino ad allora hanno costituito il quotidiano.

Tutto è diverso. La città è anormalmente deserta e silenziosa. Molte case sono ormai disabitate; i mendicanti sono stati frettolosamente cacciati via: asociali inquietanti, non sono seminatori di peste? Sono sporchi e diffondono odori inquietanti e, non in ultimo, rappresentano una bocca in più da sfamare (…).

Tutte le cronache della peste insistono anche sulla cessazione dei commerci e dell’artigianato, sulla chiusura dei negozi e delle chiese, sulla cessazione di tutti i divertimenti, sul vuoto delle strade e delle piazze, sul silenzio dei campanili».

… e il distanziamento sociale

«Tagliati fuori dal resto del mondo, gli abitanti della città si disperdono all’interno della città stessa, temendo di contaminarsi a vicenda. Evitano di aprire le finestre delle loro case e di scendere in strada. Cercano di resistere, nelle case, con le riserve di cibo accumulate. Se devono uscire per acquistare l’essenziale è necessario prendere precauzioni. I clienti e i venditori di beni di prima necessità si salutano a distanza e mettono un ampio bancone tra di loro (…).

Così, nella città assediata dalla peste, la presenza di altri non è più un conforto. Il trambusto delle strade, i rumori quotidiani che intercalano il lavoro e le giornate, l’incontro del vicino sulla soglia di casa: tutto è scomparso (…).

I rapporti umani vengono, così, completamente scompaginati: nel momento in cui il bisogno degli altri è fondamentale — momento in cui nella normalità ci si prende cura dell’altro — l’individuo è abbandonato. Il tempo della peste è il tempo della solitudine forzata».

L’abbandono dei riti funerari

«La malattia ha i suoi riti, che uniscono il paziente a chi gli sta intorno; nella morte questa abitudine è ancora più forte, in una liturgia dove si susseguono la cura del corpo, la veglia intorno al defunto, la chiusura della bara e la sepoltura. Lacrime, parole, ricordi, allestimento della camera mortuaria, preghiere, processione, la presenza di amici e parenti: tutto questo è costitutivo di un rito di passaggio che deve avvenire con ordine e decoro.

In tempi di peste, come in guerra, la fine della vita avviene in condizioni insopportabili di orrore, disordine e abbandono delle abitudini radicate nell’inconscio collettivo. L’epidemia decreta la fine della morte personalizzata: al culmine dei contagi ogni giorno a Napoli, Londra e Marsiglia morivano centinaia, addirittura migliaia, mentre gli ospedali e le caserme di fortuna allestite in fretta e furia si riempivano di moribondi. Come prendersi cura di ognuno di loro? (…)

La cessazione delle attività familiari, il silenzio delle città, la solitudine nella malattia, l’anonimato nella morte, l’abolizione dei riti collettivi, di gioia così come di tristezza: tutte queste brutali rotture con le abitudini si accompagnano a una impossibilità radicale di fare progetti per il futuro, l’iniziativa ora è interamente nelle mani della Peste».

Pavidi o eroi

«Per comprendere la psicologia di una popolazione colpita da un’epidemia, dobbiamo ancora evidenziare un elemento essenziale: durante un tale calvario era inevitabile che si verificasse una “dissoluzione dell’uomo medio”. In un tempo di questo tipo di può essere solo codardi o eroi, non esiste la possibilità di tenere una posizione nel mezzo tra le due. Il mondo del “giusto mezzo” e dei “toni di grigio” che esiste in tempi “normali” (…) viene improvvisamente abolito. All’improvviso i riflettori sono puntati sugli uomini, smascherandoli senza pietà (…).

Davanti ai saccheggiatori di morti o di case abbandonate ci sono quelli, più numerosi, che semplicemente cedono al panico; e ci sono gli “eroi”, coloro che dominano la paura, coloro che, per stile di vita (soprattutto nelle comunità religiose), professione o responsabilità si espongono al contagio e non vi sfuggono (…)».

La caccia la colpevole

«Per quanto sotto shock, la popolazione colpita dalla Peste cerca una spiegazione all’attacco del quale si sente vittima. Trovare le cause di un male permette di ricreare un quadro rassicurante, ricostituire una coerenza a partire dalla quale si potrà ritrovare una coerenza coerenza da cui emergerà logicamente l’indicazione dei rimedi. In passato sono state formulate tre spiegazioni per spiegare l’epidemia: una dagli studiosi, un’altra dalla popolazione, e la terza dalla popolazione e dalla Chiesa.

I primi hanno attribuiti la malattia alla corruzione dell’aria (…), i secondi hanno lanciato un’accusa: chi ha seminato il contagio deve essere ricercato e punito; la terza spiegazione sosteneva che Dio, oltraggiato dai peccati del suo popolo, aveva deciso di vendicarsi».

Le citazioni de “La Peur en Occident” qui sopra vengono da una selezione del testo pubblicato dal Nouvel Observateur e da qui, la traduzione è mia; i titoli dei paragrafi seguono un po’ la struttura del Nouvel Obs e un po’ no.

Nell’edizione del libro in mio possesso questa parte di trova al capitolo Typologies des comportements collectifs en temps de Peste, circa alle pagine 132–180 (Editions Fayard, 2011).

E un’intervista a Delumeau

Intervista del 26 settembre 1982. Sulla Peste: «Siamo riusciti, all’interne nelle civilizzazioni Occidentali, a sconfiggere la Peste. Oggi della Peste non abbiamo più paura».

Link

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