Parigi 1920 | La “Peste degli chiffonniers” o la “Malattia numero 9”
L’ultima volta che la peste ha ufficialmente colpito Parigi è stato nel 1699.
In maniera meno ufficiale, il bacillo di Yersin ha fatto capolino tra le pieghe della storia, tra cenci, cadaveri di topi e pulci, anche nel 1920.
Una peste questa, più piccola e più controllata, e che ha fatto solo 106 casi ufficiali e 34 morti, sui quali si è mantenuto il silenzio fino a quando, su pressione di medici e scienziati, le autorità sono intervenute.
Una peste, questa, che ha colpito solo i più poveri, un gruppo sociale che all’epoca incarnava — senza saperlo — un mondo in declino, morente, schiacciato dalla razionalità, dalla modernità, dall’igiene e dall’ordine.
Una peste, questa, che ha prodotto un rigurgito antisemita. Il discorso pubblico e mediatico non sempre ha bisogno di fatti: la Peste fu reale, ma politica e l’opinione pubblica la usarono per parlare di altro.
1920. Siamo a Parigi, è maggio, il Paese esce dalla Prima Guerra mondiale e dall’influenza spagnola: la prima si è portata via 1 milione e 400mila persone, la seconda 500mila.
La Francia vive una grave crisi economica, il franco è fortemente svalutato e c’è una crisi alimentare; è, allo stesso tempo è un momento di grande “unione nazionale” di fronte alla “France victorieuse” della Guerra. Ma c’è anche il terrore del ritorno di un’epidemia: la povertà, la scarsità dell’igiene e gli alloggi insalubri favoriscono i contagi. E gli ospedali sono pieni, di soldati, feriti e malati.
Dagli anni 80 dell’800, inoltre, arrivano in Francia immigrati dalle comunità ebraiche dall’Europa dell’Est, in fuga dai pogrom verso il miraggio dell’emancipazione: nel 1791 la Francia è il primo paese ad accordare pieni diritti di cittadinanza agli ebrei.
La Peste degli chiffonniers
Il 5 maggio 1920 Monsieur Rubietti, uomo del quale la storia ha dimenticato il nome — o che la stampa non riporta, dichiara un malore.
Rubietti viveva con la famiglia — moglie incinta di 7 mesi e un bambino di 8 anni — a Clichy-sous-Bois, comune francese a nord di Parigi, in una cité di chiffonniers. Una cité in questo caso è un agglomerato di baracche insalubri; gli chiffonniers, i suoi abitanti, facevano di mestiere gli straccivendoli, da “chiffon”, lo straccio.
Il mestiere di chiffonnier andava oltre il nome che li definiva: raccoglievano e trattavano molto di più degli chiffons: vetro, carta, ferraglia, scatole, pelli, fango, vetro… persino le ossa, dalle quali si ricavava colla, carbone animale, gelatina. Tutto quello che veniva gettato, veniva da loro recuperato e trattato. Un commercio che si interessa a tutti materiali, a tutti gli oggetti che possono essere rivenduti, smembrati, riammbembrati, trasformati.
Quella degli chiffonniers è un’economia della fame, degli ultimi. Di chi vive sul rifiuto — letterale — della società. Quello degli chiffonnier è un mestiere e un commercio del recupero e della trasformazione.
Quello degli chiffonniers era anche un mestiere essenziale, in un mondo dove il consumo ha dietro, immediato, un recupero. Il cui prezzo è sulla schiena degli ultimi.
Alla fine del Diciannovesimo secolo a Parigi si contavano 35mila chiffonniers, su circa 2milioni di abitanti. Questo fu il periodo di massima espansione della professione e l’inizio del suo declino. Fu allora che il potere pubblico inizio’ a sistematizzare la raccolta e la gestione dei rifiuti.
Passarono a 20mila negli anni Venti del Novecento, 15mila nel 1930: seppure numerosi, gli chiffonnier cominciavano il loro declino.
E qui arriva la modernità.
La poubelle francese, il grande contenitore per i rifiuti oggi è diventato sinonimo di “bidone” deve il suo nome ad un Prefetto, Eugène Poubelle, che ha messo a punto questo sistema a partire dal 1884.
La lotta contro l’insalubrità passava anche per la raccolta sistematica dei rifiuti: ogni palazzo, ogni casa, raccoglieva i suoi resti in un grande contenitore messo la sera precedente sul marciapiede, per essererecuperato dalle amministrazioni cittadine.
Prima di allora, i rifiuti venivano lasciati agli angoli delle strada — in maniera approssimativa — in specifici punti segnati da “bornes”, dei blocchi in sasso. Lì che venivano recuperati dagli chiffoniers. E riciclati.
1920, quindi
Il Consiglio della città di Parigi prese, nel 1920, due decisioni che furono fatali per gli chiffonniers: il tempo massimo durante il quale una poubelle poteva restare fuori dal palazzo prima del passaggio della municipalità fu ridotto a 30 minuti; secondo fu decisa l’accelerazione della costruzione di Habitations à Bon Marché (HBM, case a costo contenuto) nella zona delle fortificazione parigina, proprio laddove vivevano gran parte degli chiffonnier.
Nel primo caso, agli chiffoniers restava ben poco tempo per recuperare i rifiuti, cosa che andrà a ridurre il loro mercato; nel secondo sono le loro abitazioni, nella “Zone” ad essere toccate.
La Zone
Quella che viene chiamata la “zona di fortificazione” è una serie di 16 fortezze di proprietà dello Stato intorno alla città di Parigi: costruite in occasione della guerra franco-prussiana della fine del Diciannovesimo secolo, ebbero una funzione militare ridotta. Divennero un luogo di costruzione di accampamenti e baracche, una sorta di bidonville.
Poiché all’inizio del secolo gli affitti parigini erano diventati troppo cari — piaga vecchia e attualissima — gli chiffonniers si erano insediati nella zona delle fortificazioni. Qui, con materiali di recupero, avevano costruito dei villaggi, di fatto dei ghetti, che cominciarono ad attirare i derelitti parigini.
« A la zone », la “zona”, come veniva chiamata, vivevano, tra fango, parassiti e ratti, oltre 100mila esseri umani.
Tante di questi “fortezze” vennero riconvertirono nell’industria della costruzione o dell’automobile, che erano in piena espansione nel primo Dopoguerra. Il tutto in un mondo dove, va aggiunto, la cellulosa diventava sempre più a buon mercato. Meno stracci, più carta.
Fino agli anni Sessanta gli chiffonnier hanno continuato ad esistere come mestiere; ed esistono tutt’ora, in un contesto completamente diverso. La Zone, almeno in parte, è esistita fino agli anni Quaranta, ospitando decine di migliaia di persone.
La maladie numéro 9
Torniamo a questo 5 maggio 1920, quando Monsieur Rubietti si ammala. Qualche giorno dopo il padre, è il figlio a sentirsi male: il piccolo inizia a tremare e a vomitare. Il 14 maggio viene portato all’ospedale parigino Bretonneau dove i medici hanno tentato invano di curare una setticemia. Il bambino è morto il giorno successivo ricoperto di macchie bluastre, un grosso nodulo sotto l’ascella destra. Il 16 la stessa sorte è toccata al padre all’ospedale Beaujon di Clichy. Causa: setticemia da streptococco.
Al Bretonneau un pediatra non è tanto convinto della causa della morte del piccolo Rubietti: per questo Louis Guinon chiede l’analisi del contenuto della nodulo alla capa del suo laboratorio, Yvonne de Pfeffel. Una donna, presenza rara all’epoca, specialmente in una carica di quel tipo.
(La storia di Yvonne de Pfeffel, figlia della nobiltà, campionessa di tennis, unica donna ammessa al concorso di medicina nel 1910… e antenata di Boris Johnson di per sé una storia. Ma un’altra).
De Pfeffel aveva già trovato il bacillo di Yersin tre anni prima, sempre nel corpo di un ragazzino: ma, senza casi dichiarati, non si fece nulla; questa volta Guinon e De Pfeffel allertano le autorità. A Parigi è arrivata la Peste.
La città di Parigi chiede Edouard Joltrain, ispettore medico per le epidemie presso la Prefettura di Polizia, e a Edouard Dujardin-Beaumetz dell’Istituto Pasteur, di risalire la catena dei contagi. Questo significa parlare con i parenti dei malati, ricostruire gli spostamenti. E analizzare i cadaveri dei ratti, morti nelle trappole, sparse ovunque per poter capire da dove arriva il focolaio.
Perché i ratti? Perché nel 1920 era già chiaro che la peste, dai ratti passa alle pulci e poi agli uomini, grazie alle ricerche di Alexandre Yersin (l’uomo che ne ha isolato il bacillo che porta il suo nome) e Paul-Louis Simond.
Ci sono teorie controverse sulla diffusione della Peste del 1920, attribuita alle pulci dei ratti, soprattutto a causa del numero limitato di morti.
La malattia numero 9
La gestione dell’epidemia viene affidata a Albert Calmette — a cui dobbiamo il vaccino contro la tubercolosi — dell’Istituto Pasteur. Calmette conosceva la Peste — aveva conosciuto a Saigon Alexandre Yersin — e aveva lavorato a un siero contro la malattia.
Calmette aveva all’epoca 57 anni, era vice direttore dell’Istituto Pasteur e direttore del Comitato tecnico del Ministero dell’Igiene, dell’Assistenza e della Previdenza sociale, un gabinetto senza budget.
E deve impedire che la Peste si propaghi a Parigi.
Una lettera viene inviata, in via confidenziale a tutti i medici di Parigi. In questa missiva vengono descritti i sintomi della malattia e le misure da prendere se sussiste il dubbio di contagio: somministrazione del siero anti-peste che verrà distribuito ai comuni e ai Commissariati di polizia e isolamento obbligatorio. E soprattutto «confidenzialità estrema». La parola «Peste» non verrà usata, si parlerà di «malattia numero 9», dal numero che la occupa nella lista delle tredici malattie contagiose soggette a obbligo di notifica. Questo non ha impedito che si spargesse poi la voce che il numero “9” venisse da un padiglione di isolamento dei malati che doveva restare segreto.
Le autorità iniziarono rapidamente anche una campagna di vaccinazione coordinata dal Emile Roux, cofondatore dell’Istituto Pasteur.
Le Monde riporta un paradosso (che suona sempre famigliare), citando i medici, tra cui Joltrain: «Notammo che quando i cadaveri erano appena stati portati via, tutti tra la popolazione erano pronti a farsi vaccinare, ma il giorno dopo, rassicurati, gli uomini rifiutavano, temendo il dolore e l’immobilità, sostenendo di aver avuto incidenti dopo essere stati vaccinati con il tifo durante la guerra. Le donne di solito si tirano indietro e fanno vaccinare solo i loro figli (…) Se un tale flagello dovesse ripetersi, la vaccinazione obbligatoria dovrebbe essere introdotta immediatamente», scrivono.
Il dottor Calmette insiste anche per isolare i pazienti e derattizzare. Il Consiglio comunale di Parigi il 28 ottobre 1920 accetta la maggior parte delle sue raccomandazioni: in autunno, le persone furono disinfettate, pulite e vaccinate. Tra il 1920 e il 1921 furono vaccinati 1.000 parigini.
La peste del 1920 ha prodotto 106 casi e 34 morti, secondo le note di Edouard Joltrain. Si registrarono ancora 45 casi tra il 1921 e il 1934.
La catena de contagio
Tornando al dottor Edouard Joltrain, che deve risalire la catena del contagio.
Il 18 giugno, visitando la vedova Rubietti, il Joltrain scropre un nuovo nodulo e un altro caso: la donna si era probabilmente contaminata accudendo il marito e il figlio. Parte la ricerca di chi era entrato in contatto con la famiglia: un cugino, in quel momento soldato a Lons-le-Saunier, viene ritrovato in ospedale, anche lui malato.
In agosto, in seguito all’autopsia dei corpi di una coppia e della loro figlia è stato possibile risalire a una catena diffusasi probabilmente durante un funerale che ha permesso di rintracciare un piccolo focolaio di 7 malati alla cité d’Hautpoul nel XX° arrondissement di Parigi, cosa che permise al dottor Joltrain di trovarne altri 7, tra cui la nipote della coppia di cui sopra, che viveva ad Aubervilliers, che non aveva participato ai funerali ma che era entrata in contatto con le pulci dei ratti tramite la coppia.
Così, a inizio agosto 4 focolai e casi a Bagnolet, Pantin, Saint-Ouen e Clichy, tutte zone di chiffoniers.
In settembre un altro caso fu trovato nel 18° arrondissement. M. T., che viveva a Clignancourt, aveva, con la moglie, vegliato i suoceri morenti. I suoceri non erano morti di peste ma vivano di fronte a una baracca dove, invece, in condizioni insalubri viveva una coppia più altre tre persone, queste si’ malate, che avevano visitato i morenti. A ottobre due casi furono trovati in un ospedale parigino: la notizia non venne data per non “disturbare i commerci”; alti casi vennero trovati a Villeneuve-la-Garenne, a Aubervilliers e a Montreuil. Nella maggior parte dei casi Joltrain si trova di fronte a alloggi insalubri, rifiuti e ratti.
In novembre altri due casi vennero trovati a Nanterre finché il bacillo sparì, lasciando morire solo ratti.
Questa peste fu chiamata la «peste des chiffonniers» perché la maggior parte dei casi arrivano dalla “Zone” dove vivevano, in condizioni igieniche lamentabili, gli chiffonniers.
Quella dei ratti, un’altra storia ancora
I ratti, bisognava liberarsi dai ratti.
Che fare? La città di Parigi in settembre ha votato un budget di derattizzazione che comprendeva l’acquisto di trappole e una “taglia”, un premio, per l’uccisione delle bestiole: 25 centesimi a coda. Inutile dire che non ha funzionato.
Il primo inconveniente è che qualcuno ha iniziato ad allevare ratti, o per venderne la coda, oppure per alimentare i “ratodrome”, ovvero dei combattimenti che consistevano nel mettere dei ratti e un cane in una gabbia. Secondo inconveniente, non da poco: una caccia al ratto mette i cittadini in contatto diretto con di diverse malattie. Oltre alla peste, la spirocheteosi.
L’antisemitismo e i Protocolli di Sion
La Peste. E un rigurgito di razzismo. Dai ratti, la colpa è passata agli ebrei.
Nonostante il tentativo di mantenere il silenzio, il 18 agosto 1920 il quotidiano La Lanterne scrive che ci sono stati «dei casi di peste a Parigi». Le autorità tacciono. Il 1° settembre 1920 Le Populaire titola «C’è la peste a Parigi ma non bisogna parlarne, dice un capo del dipartimento Pasteur».
Dei 14 morti già contabilizzati dalle autorità sanitarie, la stampa ne racconta solo uno.
Ma arriva la politica.
Adrien Gaudin de Villaine, senatore, 68 anni all’epoca, il 2 dicembre accusa le «migliaia di indesiderabili dell’Est» di essere la causa di questa malattia: «Sono generalmente gli ebrei dell’Est che ci portano ogni sorta di malattie, in particolare la lebbra, e soprattutto la malattia numero 9 (…) Cosa aspettiamo ad agire? (…) Come abbiamo detto, dobbiamo vietare le stanze dove venti israeliti condividono i loro pidocchi e le loro malattie».
Diversi senatori raccolgono il suo appello: tra cui Dominique Delahaye (Maine-et-Loire) e Louis Dausset (Seine), utilizzando tutto l’armamentario del discorso dell’antisemitismo classico. Si parla quindi di «parassiti» che hanno invaso la capitale, di un «popolo che brulica intorno a Parigi, non penetrabile né assimilabile».
Il presidente dell’Istituto Pasteur, professor Emile Roux, e Jules-Louis Breton, Ministro dell’Igiene, hanno smentito formalmente queste voci diffondendo la versione ufficiale: la peste bubbonica arrivò a Parigi nel 1917 su una nave proveniente dall’India che al suo interno aveva topi malati. La nave portava carbone dall’Inghilterra, risaliva la Senna da Le Havre e attraccava a Levallois, dove è rimasta due giorni. I ratti della peste fuggirono, e un bambino fu infettato.
Ma c’è una sincronia perfetta — lo raccontano Tristan Mendès-France e Michaël Prazan in un documentario, “La Maladie n. 9” —nello stesso periodo vennero pubblicati in francese i “Protocolli dei Savi di Sion” il testo antisemita per eccellenza. Nel testo si far rifermento, tra le altre teorie cospirative, a un “complotto” per contaminare i non-ebrei.
Questa ondata di antisemitismo, a differenza di altre, non ebbe echi nella popolazione parigina, forse non troppo spaventata per un numero cosi “esiguo” di vittime, all’indomani della tragedia umana della Prima guerra mondiale e dell’influenza spagnola.
Un’ultima Peste è stata documentata da Ajacco nel 1945: 13 casi e 8 o 10 morti.
(testo scritto durante il lockdown del 2020, rimasto in una bozza, dimenticato)