Note di confinement#12: Comune e comuni
Mercredi 15 avril
Ieri è stata una giornata densa. La più normale, la più bella e pure la più brutta in un mese di confinement. Stridente.
Il martedì preparo la mensa con Solidarité migrants Wilson, un collettivo che si occupa di sostegno ai rifugiati, in maniera particolare quelli senza documenti e senza dimora, quelli che vivono per strada a Parigi. La cucina del martedì pomeriggio si fa a Saint Denis, città di 110mila abitanti nella Seine-Saint-Denis, appunto, a due chilometri dal cento di Aubervilliers; più precisamente cuciniamo al Teatro La Belle étoile, gestito dalla compagnia La Jolie Môme, che mette a disposizione la sua cucina il periodo.
La Jolie Môme esiste dagli anni ’80: è una compagnia con una tradizione di militanza a sinistra a cui, nel 2004, la città di Saint-Denis ha affidato la gestione del teatro. Saint-Denis, così come Aubervilliers, fa parte della cosiddetta “cintura rossa” o “banlieue rouge”. L’espressione vuol dire principalmente — semplificando — due cose: si tratta di comuni che hanno un’ammirazione comunista (o comunque molto a sinistra, più del PS) dagli anni Venti e che sono, percentualmente, abitati da operai.
Per la cucina del martedì si ritrova in dieci, mascherati e inguantati, a preparare tra i 200 e i 300 pasti che poi verranno distribuiti, insieme a un altro centinaio che arrivano da altrove, ai rifugiati e ai senza tetto che si ritrovano nella zona nord della città (Canal Saint Denis, Porte d’Aubervilliers, Porte de la Chapelle, Porte de la Villette) dove vengono allestiti campi effimeri che regolarmente (anche in tempo di confinement) la polizia sgombera. A ottobre (2019) France Terre d’Asile, un’associazione che si occupa di accoglienza, ha parlato di una situazione “mai vista prima” arrivando a contare 2500 persone nei campi solo al nord della città.
Il martedì ci si ritrova in un clima bizzarro, fatto di cordialità e timore: non ci si conosce tutti ( i volontari cambiano da una settimana all’altra), ci si sorride ma la mascherina mozza tutto, si comunica con lo stesso problema, e alla quarta cipolla tagliata tutti abbiamo il naso tappato.
Durante una pausa dovuta ai tempi di cottura del riso, la compagnia ci ha proposto una visita del posto. Costruito riutilizzando una vecchia sala comunale per le feste laiche che risale al periodo della Comune di Parigi, il teatro ha una sala/bar all’entrata e un anfiteatro sul retro. Il palco era allestito proprio per uno spettacolo sulla Comune (tra l’altro): una bandiera rossa montata su barricate ricavate da casse di legno. Tre ragazze, di cui una al contrabbasso e due alla voce, e un uomo di mezza età alla fisarmonica, ci hanno cantato tre pezzi dello spettacolo che stavano allestendo prima della quarantena.
Il tutto è durato 20 minuti. 20 minuti di vita normale: ascolti, sorridi e applaudi. Venti minuti banali e fuori dal tempo, dopo un un mese passato in casa, con la consapevolezza che una cosa del genere ricapiterà, sì, quando, boh.
La fine del confinement annunciata per la Francia è l’11 maggio, bar e ristoranti resteranno chiusi. Per i festival e i concerti si parla di luglio, ma è una data effimera, una supercazzola delle tante che per rassicurare il governo racconta. Da marzo se sono accumulate talmente che sono criminali, ormai.
Eravamo sei spettatori, sparsi nell’anfiteatro. Abbiamo applaudito troppo e troppo forte e ringraziato più volte. Ed eravamo commossi, commossi dalla normalità, dalla semplicità con la quale una cosa di quel tipo stava succedendo.
Finita la cucina, quando chi di occupa di distribuire inizia a caricare i pasti, sono sono partita per tornare a casa, a piedi, come all’andata. Il percorso che collega Aubervilliers e Saint-Denis è una terra di nessuno addobbata di negozi di tessile all’ingrosso della peggio qualità: hangar chiusi, strade deserte, insegne dorate, tamarre, luciccanti, pastellate e cadenti. Il cielo blu, il sole caldo, l’aria fresca. Perfetto.
Si passa il ponte sul canal Saint-Denis e, da lì, la rue Sadi Carnot porta praticamente sotto casa mia.
Sadi Carnot è stato Presidente della Repubblica francese tra il 1887 et il 1894. Il 24 luglio di quell’anno è stato pugnalato a morte a Lione da Sante Caserio, fornaio, italiano e anarchico, che fu poi ghigliottinato lo stesso anno. (“La ballata di Santa Caserio”, col testo di Pietro Gori, che è tanto famosa, racconta di lui).
Arrivata a casa ho ricevuto un messaggio che mi era stato inviato inviato 4 ore prima, che non avevo letto perché il giorno di Pasqua (zio cantante in loop, ndr) mi hanno rubato il telefono.
Il papà della mia amica C. che vive à Lione è morto dopo essere stato due settimane intubato in coma farmacologico, positivo al Covid-19. Non l’ho mai conosciuto Gilles. Ora, in questi giorni, avrei dovuto essere con lui, lei e il fidanzato di C. in Algeria a casa di un amico comunque. Gilles non aveva neanche settant'anni, era in buona salute, era in forma, come tanti, troppi.
Non che ci sia una morale in questa storia, davvero. Siamo tutti in mezzo a questo delirio. Tutto tanto normale e banale. Tutto straordinario. Duro e algido come la storia del mondo. Lieve rispetto alla guerra quella vera, un macigno per la nostra normalità, così innocente e così privilegiata.
Comune nel suo significato di “banale”, “di tutti”, “normale”, “ordinario”; comune nel anche come “collettivo”, “di tutti”, il contrario di “privato”, anche.