«Non so cos’è la realtà, mi dica cos’è reale». Di gaslighting e accuratezza
Di “gaslighting” si parla abbastanza in questo momento: la parola viene usata quasi come forma di analisi politica.
L’ex Presidente americano, Donald Trump, è stato accusato di praticarlo, non con la moglie — ma, visto che non si sa mai: “Melania blink twice if you need help” — ma in politica (“Donald Trump Is Gaslighting America”). In causa i suoi tweet e le sue dichiarazioni, la lunga lista di menzogne che ha diffuso senza mai preoccuparsi di verificare, correggere, smentire.
O ancora, se ne discute in Israele: «Penso che Netanyahu sia un maestro del gaslighting. Chiamare le persone “musone” [come il premier ha soprannominato alcuni dei suoi critici, nel 2018] è gaslighting», dice la psicoterapeuta Anav Youlevich su Haaretz. «Netanyahu sostiene di essere sotto attacco per il solo fatto di venir intervistato, anche se gli vengono rivolte domande che verrebbero fatte a qualunque altro politico. Non è mai da biasimare, non è mai colpa sua, e questo è un classico del gaslighting». Oppure, altro esempio, Boris Johnson e il “gaslighting” sulla Brexit: qui.
Gli scivoloni complottisti non mancano: in tempi di Pandemia, i governi sono accusati di cambiare la realtà, i dati, le versioni; in più ci sono i decreti che vengono modificati regolarmente... Di annunciare misure che non verranno prese, oppure di cambiare le regole, contraddicendo le precedenti… Lo scopo “occulto”? Creare confusione nella popolazione per poterla controllare.
We went too far? Oppure, al contrario, nell’epoca di post-verità, fakenews, complotti e gomblotti, è naturale che un termine — “gaslighting” — che mette in questione la percezione della realtà sia diventato, stia diventando, tanto usato. «Tutto è sottosopra. Quando i fatti e la verità non hanno più importanza, come sapere in cosa credere, specialmente quando questo comportamento viene da chi dovrebbe incarnare etica e forma?», scrive la giornalista americana Ariel Leve sul Guardian.
Cos’è il gaslighting?
La parola “gaslighting” la dobbiamo a un’opera teatrale del britannico Patrick Hamilton, messa in scena a Londra nel 1938. Ebbe un successo enorme — addirittura Giorgio VI portò la moglie a vederla — e nel 1944 divenne un film diretto da George Cukor. Racconta il matrimonio di Jack e Bella: il marito cerca di modificare la percezione del reale della moglie, facendola dubitare della sua salute mentale. Tra le altre cose Jack modifica la tensione delle luci nella casa, fingendo che solo Bella percepisca il cambiamento.
Quando l’opera di Hamilton è stata pubblicata la questione degli abusi domestici non era un argomento di dibattito: ciononostante, ottanta anni dopo, il titolo di un’opera teatrale è usato per raccontare una forma di abuso relazionale.
Il gaslighting e la “realtà”
La prima volta che ho sentito il termine “gaslighting” è stato durante una discussione con un’amica britannica, naturalmente. Dico “naturalmente” perché è ancora, mi pare, soprattutto un termine anglosassone: non solo per la parola in sé, ma anche per il trattamento “terapeutico” (semplificando all’estremo: cosa direbbe Freud? :) ) e per l’uso che ne viene fatto nella cultura “popolare”.
Nel 2016, “gaslight” è stata definita la «parola più utile» dell’anno dall’American Dialect Society; nel 2017 la psicologa Stephanie Sarkis ha scritto un articolo (“11 Warning Signs of Gaslighting”), diventato virale, al quale è seguito un libro omonimo; nel 2018, è stata una delle «parole dell’anno» dall’Oxford Dictionaries. In mezzo, nel 2017, un saggio pubblicato su Medium da Carmen Maria Machado, ha avuto un enorme successo.
La seconda volta che ho letto la parola “gaslighting” è stato in un libro di Albert Moukheiber, dottore in neuroscienze e psicologo: in un passaggio de “Il vostro cervello vi gioca degli scherzi, in francese” scrive: «Il “gaslighting” è un tipo di deviazione cognitiva che si basa su una manipolazione della memoria per fare in modo che la persona dubiti dei suoi ricordi o della sua salute mentale. I fatti vengono presentati parzialmente, o con alcuni elementi modificati».
Alla persona che, diciamo, “riceve” questo meccanismo, viene detto che ricorda le cose in maniera sbagliata o confusa, che modifica i fatti, che ha detto/fatto una cosa diversa da quella che ricorda o da quella che difende.
«Mi è stato detto che quello che ho visto con i miei occhi non era successo», dice Ariel Leve sul Guardian, «quando cercavo il confronto, basandomi sui fatti, questi venivano respinti. Non solo la mia realtà veniva cancellata, ma la mia percezione riscritta», spiega. Leve testimonia come ha vissuto questo abuso da bambina (in “An Abbreviated Life): «Una delle cose maggiormente insidiose del gaslighting è la negazione della realtà. La negazione di ciò che si è visto, sperimentato e che sai essere vero. Può farti pensare di essere pazzo/a, ma non lo sei».
L’abuso non è fisico, né palpabile. Robin Stern, psicologa e autrice di “The Gaslight Effect”, spiega con un esempio molto semplice, come può funzionare.
Cito: «Un suo amico era sempre in ritardo. All’inizio, lei glielo fece notare, adducendo che non era un comportamento rispettoso. La risposta di lui? “Sei troppo sensibile”. La cosa ha continuato a verificarsi e quando si arrivava alla discussione, lui le diceva: “Hai veramente un problema con il tempo, eh?”. Lei ha iniziato a pensare che lui potesse avere ragione e a dubitare di sé stessa: “In fondo, che problema c’è se qualcuno è in ritardo? Forse non sono abbastanza flessibile”».
La responsabilità che viene capovolta: la questione — in questo caso il ritardo — non viene negata, semplicemente cancellata: la risposta che viene data non entra nel merito della questione sollevata, ma sposta il problema sull’altra persona che viene attaccata a “causa” del suo modo di essere.
Il problema è sempre l’altro, che viene patologizzato (come racconta questa discussione su Twitter): «Quando qualcuno è in una posizione di potere o di autorità, idealizzato, oppure quando si è in una relazione di co-dipendenza — o semplicemente con qualcuno che si ha paura di perdere — la sua insistenza che la sua realtà è LA realtà può portare a dubitare del fatto che quello che sai o fai è vero», continua Leve.
«Non è solo l’abuso, ma è la cancellazione dell’abuso. È l’annullamento della prospettiva sostenuta da un’altra persona, l’insistenza sul fatto che non è l’azione compiuta ad essere sbagliata, ma la reazione dell’altra persona», dice Kate Abramson, professoressa di Filosofia all’Università dell’Indiana sul Guardian. Il classico: «Sei paranoica/o», «Sei troppo sensibile ».
«Tutti ci chiediamo se abbiamo ragione o meno su un tema di discussione (il famoso “rimettersi in questione”, ndr). Il gaslighting prende questa qualità, necessaria per l’interazione umana, e la usa per minare la capacità di interagire. E questo atteggiamento ha qualcosa di oscuro», continua Abramson.
«Non so cos’è la realtà. Mi dica cos’è reale»
«Il gaslighting è un termine che comprende tutta una serie di manipolazioni emotive: si costituisce attraverso l’attivo indebolimento della legittimità dei pensieri e dei sentimenti della vittima», racconta Anav Youlevich, psicologa, che in Israele ha aperto il centro “Ogen” (Psicologi per le vittime di abusi narcisistici e psicopatici).
Youlevich spiega, in un lungo testo su Haaretz, che negli anni le è capitato di ricevere pazienti che le dicevano: «Non so cos’è la realtà. Mi dica cos’è reale». Non trattandosi di pazienti psicotici, Youlevich ha iniziato ad affrontare la questione diversamente ed è arrivata alla conclusione che si trattava di donne e uomini che avevano sperimentato un “gaslighting” prolungato. Cosa significa? Erano in «una relazione con una persona che ha cercato, con successo, di determinare la loro percezione della realtà per controllarli».
Frasi del tipo: «Sei paranoica/o», «Sei troppo sensibile », «Non è successo, te lo sei immaginato», fanno parte dell’armamentario dialettico al quale ci si può confrontare con il “gaslighting”.
Si negano cose che sono successe, spostando le argomentazioni per le quali sono successe: il meccanismo è potente e fa sì che la persona si ritrovi (per esempio) a controllare il contenuto di messaggi o sms per verificare cosa è veramente accaduto (altro segno che deve allertare, secondo Youlevich).
Lo facciamo un po’ tutti, no?
Capita, a noi mortali, di eludere una discussione o un argomento per uscire da una conversazione scomoda. Lo facciamo, rendendocene conto oppure no, banalmente, forse più o meno tutti, continua Youlevich nella sua lunga riflessione.
Ma non basta questo per parlare di “gaslighting”: per essere tale il comportamento deve essere prolungato nel tempo. Secondo Youlevich chi metto in atto meccanismi di questo tipo lo fa per aumentare la propria autostima, cercando di suscitare una risposta emotiva. Per chi lo subisce è centrale la questione dell’intenzione, che è costantemente in bilico: «Forse non era intenzionale? Forse mi sto davvero immaginando le cose?».
Cosa c’è dietro? Una completa incapacità ad assumersi le proprie responsabilità, radicalmente, non prendendo in considerazione il problema, al punto di eludere la realtà stessa: «Molto spesso il gaslighter si presenta come perseguitato, mentre lui stesso sa che sta facendo agendo per perseguitare gli altri. Quindi, proietta semplicemente su qualcun altro», dice Youlevich.
«Un gaslighter è qualcuno che non può sopportare altri punti di vista», dice Abramson. «Hanno bisogno che il loro modo di vedere il mondo non venga messo in discussione e per questo le prospettive diverse vanno distrutte, insieme alla fonte», spiega Sarkis.
Come succede?
Secondo Youlevich «entrambi, sia “l’abusatore” che “l’abusato” hanno sperimentato una genitorialità narcisistica o psicopatica. Può trattarsi di genitori che non hanno accolto o legittimato le emozioni e i bisogni dei figli, oppure genitori che hanno effettivamente abusato. Questi bambini, di solito rievocano le relazioni che hanno vissuto nell’infanzia. Alcuni sviluppano gravi disturbi della personalità e diventano essi stessi abusatori; altri diventano adulti occupati a compiacere gli altri, mentre non percepiscono i propri desideri e bisogni come legittimi. Quando qualcuno cresce con la sensazione che i suoi bisogni non hanno senso, è a rischio di entrare in una relazione di abuso, perché non sa come porre dei limiti e non sa cosa è giusto per lui/lei».
«Gli psicologi sono spesso preoccupati di capire l’esperienza interiore del paziente, ed è importante capire che questa non è un’esperienza “interiore”, nei fatti», dice Youlevich: «Molte volte le vittime di relazioni come queste entrano in terapia e viene loro diagnosticato un disturbo della personalità, o una sindrome da stress post-traumatico, perché mostrano un comportamento caratteristico di questi problemi. Ma quando l’abusatore viene tolto dalla loro vita, il comportamento cambia».
Ariel Leve racconta: «Da bambina ho vissuto in un mondo dove non c’era sicurezza emotiva, e allo stesso tempo mi veniva ripetuto che la mia infanzia era bella e che ero un’ingrata. Perché mi lamentavo? Mi sentivo costantemente insicura, e i miei sentimenti avevano un’origine: che si trattasse di assistere a discussioni violente o essere vittima di un comportamento inappropriato, queste cose succedevano. Quando affrontavo mia madre con la verità, questa veniva negata, continuare a cercare di affermarla avrebbe solo portato altro conflitto. Mi veniva detto che quello che avevo visto non era successo, che mentivo, che non era vero. Anche i fatti venivano negati». La madre di Leve, una poetessa newyorkese, faceva parte del circolo intellettuale della città. A casa sua c’erano feste alle quali partecipavano Saul Bellow, Philip Roth, Norman Mailer o, ancora, Andy Warhol. «Non si trattava di me», dice Leve. «Si trattava della sua ansia, dovevo rassicurarla. Io ero il genitore e lei la bambina. Questo però ha fatto esplodere la mia, di ansia». (Qui la storia dell’uscita del libro di Leve e la reazione della madre, che consiglio di leggere, in un bellissimo pezzo di Jon Ronson).
Una conseguenza? Leve racconta che un tratto del suo carattere lo deve a quello che ha vissuto, che si è costruito in opposizione: «Sono estremamente meticolosa. Durante una conversazione, se il mio interlocutore si sbaglia su un fatto, lo faccio notare immediatamente: “Questa cosa l’hai detta mercoledì, non giovedì”. Alcuni non la prendono bene. Ma se sei stato oggetto di gaslighting, una sorta di compulsione per l’accuratezza può essere un meccanismo di sopravvivenza, racconta Leve.
«Molti gaslighters soffrono di disturbi della personalità, e la maggior parte di questi comporta una percezione distorta della realtà. Quella realtà rispecchia il loro mondo interiore, che è manicheo: odiano con tutte le loro forze e amano con tutte le loro forze. Non sono sempre consapevoli che stanno facendo “gaslighting”, ma possono esserlo. Dipende dalla persona e dalla situazione. Credo che anche quelli che non ne sono così coscienti abbiano delle epifanie di consapevolezza. È inconcepibile che una persona faccia cose così deliberate, che feriscono un’altra persona così profondamente, e non ne sia consapevole», dice Youlevich. «È comune tra gli psicopatici e i narcisisti, ma potrebbe essere semplicemente che questo meccanismo sia stato imparato dai genitori, o che sia il risultato di una strategia per superare una sfida», dice ancora Abramson.
La dottoressa Stern aggiunge che non è sempre un atto consapevole: «Può anche essere un meccanismo appreso in questo modo: quando non si è stabili, distruggere la prospettiva di qualcuno è il solo modo per centrarti in una certezza».
Che fare, quindi?
Ariel Leve fa una piccola lista.
- La diffidenza/Remain defiant
Se ti viene chiesto di cambiare il tuo modo di vedere le cose, fidati della tua versione della realtà. Non permettere che possa essere modificata su richiesta, resisti. «La rabbia mi ha protetto, perché sapevo di sapere quel che sapevo, che non poteva essere cancellato. Essere diffidente non fa di te qualcuno di difficile, fa di te qualcuno di resiliente».
2. Accetta il fatto che non ci sarà accettazione della responsabilità/Recognize there will never be accountability
La persona che sta usando il “gaslighting” non sarà mai in grado di vedere il tuo punto di vista o assumersi responsabilità per le sue azioni. «Il tuo riconoscimento non è tra le possibilità in campo. Cercare di affermare se stessi non è solo inutile, è dannoso: la persona che fa “gaslighting” non sarà mai in grado di rispondere alla logica e alla ragione, per questo devi essere tu a riconoscere che la logica e la ragione non possono essere applicate».
3. Lasciare cadere il desiderio che le cose possano essere diverse/Let go of the wish for things to be different
«The wish for things to be different is very powerful and inoculates you to the tumult»: il desiderio che le cose possano essere diverse è molto potente, ma ti porta dritto al caos, ti permette di poter continuare a credere alla logica e alla ragione. «Vorresti che le cose avessero senso, ma non ce l’hanno. Vuoi essere su un terreno sicuro, ma non ci sei. Devi lasciar andare questo desiderio perché le cose non avranno mai senso, non sarai mai ascoltato»
4. Sviluppa un distacco sano/Develop healthy detachment
«Ho dovuto sviluppare dei meccanismi di difesa, ma non senza pagarne un prezzo. Comportamenti che sono serviti per adattarsi da bambina, sono diventatati problematici da adulta: non davo fiducia e avevo sempre bisogno di verifiche. Sono diventato iper-vigile sulla chiarezza. Non c’era spazio per l’incomprensione; nessun margine di errore. Avevo bisogno di certezza in un mondo incerto. Ma viviamo in un mondo incerto, quindi ci deve essere un modo per trovare un equilibrio», scrive Leve.
Secondo la dottoressa Stern ci sono diversi modi per riconoscere se sei vittima di “gaslighting” (come è più facile l’inglese in certi casi: “recognize when you’re being gaslighted”, nell’originale): «Ti senti confuso/a, pensi di essere pazzo/a. Ti scusi spesso, ti chiedi se sei abbastanza, non capisci perché ti senti così male, sai che qualcosa non va ma non sai cosa. Tu pensi una cosa, te ne dicono un’altra e non capisci più cosa è giusto».
Come fare? Aspetta che le emozioni passino, poi scrivi la conversazione e cerca di capire dove è stata capovolta: «Quando qualcuno è così sicuro di ciò che crede, e continua ad insistere e a cercare di convincerti — e la cosa va avanti per un periodo più o meno lungo — mette in discussione la tua percezione. Dover verificare la realtà è, in sé, già qualcosa che destabilizza».
Il “gaslighting” è la continua sensazione che il terreno si stia spostando sotto i tuoi piedi e che non c’è un centro di gravità. Il solo modo per trovare senso è rimanere risoluti.
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Una domanda, tra le tante, resta di sottofondo: cos’è la realtà? Cosa è reale? Perché in fondo, siamo tutti convinti di un sacco di cose, ci arrocchiamo su posizioni senza neanche saperlo, chiusi e chiuse in torri nelle quali non sappiamo di essere entrati.
Una mia cara amica, più saggia di me, ha avanzato una cosa del tipo «la realtà è anche un accordo, un contratto, che stabiliamo insieme, io e te, nella relazione».
Questo contratto — anche se la parola forse non ci piace — è probabilmente la cosa che salta completamente in quello che è definito il “gaslighting”: una realtà mangia, schiaccia e elimina — radicalmente, completamente — l’altra. Forse, in soldoni, il “gaslighting ” è solo la riscrittura, completa e totale, della storia di un’altra persona, di una storia condivisa, di un ricordo; forse un’appropriazione senza accordo, un consenso non chiesto e negato: l’accordo, il contratto — la relazione forse? — non fanno parte dello scenario.
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(nota: ho letto un po’ di cose sull’argomento e cerco di ricostruire un dibattito senza la pretesa di capire qualcosa di psicologia. L’uso dei termini “vittima”, “abuso”, “abusatore”, etc… non mi mettono particolarmente a mio agio, ma li uso così come sono utilizzati nelle fonti che cito. Le traduzioni sono mie).
https://medium.com/wordsthatmatter/gaslit-nation-b528ce36e22d