L’ordine francese: le radici coloniali

Francesca Barca
12 min readJun 8, 2023

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(una versione più corta è stata pubblicata su Il Mulino)

Da quando il governo di Emmanuel Macron ha usato il 49.3 per far passare la riforma delle pensioni, il livello dello scontro di piazza, già carico di 3 mesi di proteste, si è alzato: assembramenti spontanei e non dichiarati, manifestazioni, occupazioni, sit-in… e scontri con le forze dell’ordine.

Sono diversi i feriti tra cui due gravi (a Saint Soline) e tantissimi i casi di arresti arbitrari e di uso distorto degli strumenti legislativi pensati per il terrorismo, ma applicati alla piazza.

Le violenze delle forze dell’ordine sono un’evidenza: nelle immagini che circolano, nelle prese di posizione ufficiali — da parte del relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto di riunione e associazione pacifica, del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, in una lunga lista — e nella reazione della stampa non francese.

Si fanno sentire sdegno e denunce, come se questa violenza fosse cosa nuova. Non lo è.

Quello che succede in Francia non è solo un apparato statale militarizzato in maniera sproporzionata che scivola verso comportamenti sempre più violenti, fisicamente e simbolicamente, né (solamente) l’effetto delle azioni di un Governo che si struttura sempre più a destra, ma il risultato di una storia nazionale e del suo passato coloniale.

La prima volta che l’Europa ha assistito in maniera massiccia, grazie anche ai social, allo spiegarsi dell’apparato repressivo delle forze dell’ordine francesi è stato nel 2018. Ne avevamo già parlato brevemente, ma è importante ricordare — non fosse per dare la misura del fenomeno — che il movimento dei Gilets Jaunes ha pagato un tributo molto caro, un tributo di corpi, per la sua rivolta: 300 persone ferite gravemente alla testa, 25 hanno perso in maniera permanente un occhio in seguito ai tiri di granate LBD e 5 hanno perso un arto (quasi sempre una mano, nel tentativo di allontanare le granate in questione).

Anche se il numero resta impreciso, si arrivano a contare 2000 feriti in totale.

Gli storici fanno nascere la cultura del “dell’ordine” alla francese negli anni Trenta del Novecento, con la creazione della Gendarmeria mobile e una riflessione più strutturata, che convoglia nella creazione, dopo la Seconda Guerra mondiale, delle Compagnies républicaines de sécurité (CRS), divisione che ha una formazione a parte, equipaggiamento specifico e che è pensata per la gestione delle piazze.

I CRS sono (anche) noti per i morti in piazza — 1 alla manifestazione Ridgway (1952), 7, di cui 6 algerini, il 14 luglio 1953 in una manifestazione contro il colonialismo, diverse decine il 17 ottobre 1961 e 10 al métro Charonne (1962, manifestazione contro l’OAS e la guerra in Algeria).

Faccio un inciso. Quella del 17 ottobre 1961 è stata definita «la più violenta repressione statale di una manifestazione di piazza in Europa occidentale nella storia moderna» da due storici britannici, Jim House e Neil MacMaster (Paris 1961. Algerians, State Terror and Memory).

Si trattava di una manifestazione organizzata dalla Fédération di Francia del FLN per protestare contro il coprifuoco imposto dal prefetto Maurice Papon ai soli algerini. Le Monde usa senza virgolette il termine pogrom antialgerino. A tutt’oggi non esistono numeri ufficiali dei morti: 38 secondo le stime più basse, 200 secondo quelle più elevate — alcune delle quali gettate nella Senna dalla polizia, alcuni ancora vivi. Nel 2012 Hollande ha riconosciuto questa “repressione sanguinosa”.

canal Saint-Martin, 2023

Il prefetto in carica, Papon, era lo stesso che ha partecipato alla deportazione degli ebrei di Francia una ventina di anni prima, e che nel 1945 era alla sottodirezione de l’Algeria al Ministero degli Interni e poi super-prefetto in Algeria durante la guerra di Liberazione.

Maggio 68 ha visto una relativa poca violenza, si dice da tante parti, ed è vero: “solamente” 7 morti per una mobilitazione massiccia, a soli 7 anni dai corpi degli algerini gettati nella Senna. Come mai?

I morti del 17 ottobre 1961 e quelli di Charonne sono popolazioni con un passato di migrazione e di storia coloniale. Sono gli algerini che hanno voluto l’indipendenza, sono i lavoratori immigrati che arrivano in Francia. Sono i colonizzati.

«Le spedizioni punitive perpetrate dalla polizia parigina addestrata sotto il prefetto Papon», commenta Fabien Jobard su Le Monde, «sono in linea con le operazioni di polizia legate alla guerra d’Algeria».

Lo storico Emmanuel Blanchard, sempre su Le Monde, analizza questa differenza: «Mentre una graduale pacificazione del mantenimento dell’ordine si rese necessaria nel Ventesimo secolo nelle manifestazioni nella Francia metropolitana, i “nativi” delle colonie furono vittime di grandi violenze. Affidato alla polizia, ma anche all’esercito e alle milizie locali di coloni armati, il ripristino dell’ordine nell’impero aveva lo scopo di “sottomettere” i “colonizzati”. Negli anni ’30, l’aviazione fu usata per sparare contro gli assembramenti di contadini in Indocina e, nel 1945, la repressione delle manifestazioni di Sétif, Guelma e Kherrata, in Algeria, per diverse settimane, provocò più di 10.000 morti».

«Dagli anni ’30 in poi, e soprattutto dopo il 1945, questa violenza della polizia si è manifestata ogni volta che i “colonizzati” manifestavano a Parigi o nelle province. La polizia non li trattava come cittadini, ma come “nativi”. Il 28 maggio 1952, l’unico morto della mobilitazione contro il generale Ridgway è stato un algerino, colpito da un proiettile; nel 1953 la polizia ha aperto il fuoco sulla marcia non violenta del movimento di Messali Hadj, uccidendo 7 manifestanti, senza dimenticare, naturalmente, il massacro del 17 ottobre 1961. Nel Dopoguerra, la polizia ha trattato i “musulmani francesi” d’Algeria in modo ancora più duro di come l’esercito, nel 1891, ha brutalizzato gli operai di Fourmies o altrove», continua Blanchard.

Dopo maggio 68 ci sono stati anni relativamente pacifici, dicevamo, almeno per i francesi di “souche”, ovvero i cittadini bianchi con una storia familiare conforme alla narrazione nazionale, e nati e cresciuti in contesti “bianchi”.

Gli scontri e le bavures esistevano, ma restavano contestualizzate, controllate. Limitate territorialmente. Specifiche ad alcuni contesti, e solo per alcune popolazioni. Oppure non raccontate perché non rientravano nei racconti ufficiali. Almeno sulla grande stampa, almeno all’internazionale. Se ne parla poco. Perché la Francia stessa non ne vuole parlare.

Nel 2005 c’è la cosiddetta “rivolta delle banlieues” che è esplosa — sulle ceneri di discriminazioni, povertà, segregazione territoriale, delinquenza, razzismo e tanta altra complessità — in seguito alla morte di due adolescenti che cercavano di nascondersi dalla polizia. L’evento è stato talmente enorme in termini numerici che ha oltrepassato i confini, permettendo un primo passo verso una discussione pubblica in Francia.

Ma le macchine bruciate e rivoltate erano l’iceberg della sofferenza di territori dimenticati dalla République, territori la cui storia è complessa ma sui quali il controllo — e l’abuso — da parte delle forze dell’ordine erano e sono la quotidianità. E parte di una sorta di “abitudine”: le macchine nelle banlieue di Francia bruciavano prima del 2005 e continuano a bruciare.

Nel 2020, su The Guardian, Matthieu Rigouste, militante e ricercatore, specializzato di violenza di stato, scriveva: «La polizia francese di oggi è plasmata dalla violenza della sua storia: molti dei suoi metodi di sorveglianza e repressione sono arrivati in patria dal repertorio delle forze che si occupavano degli “indigeni nordafricani” nelle ex colonie francesi. Per tutto il periodo coloniale, agenti e ufficiali di polizia hanno fatto tesoro delle loro esperienze in luoghi come l’Algeria e le hanno applicate alla sorveglianza dei quartieri popolari e alla repressione delle insurrezioni nella Francia continentale. La caccia all’uomo, la cattura e le tecniche di strangolamento che hanno recentemente (nel 2016 e 2020, ndr) ucciso Adama Traoré o Chouviat, e l’uso della violenza sessuale per umiliare, come nel caso di Théo Luhaka nel 2017, fanno parte di questa lunga storia».

Per dare la misura, l’affaire Theo è la storia di un giovane di 22 anni della Seine-Saint-Denis, fermato dalla polizia per un controllo e arrivato in ospedale con ferite al retto praticate con un manganello. Che resteranno permanenti.

Paris 20eme

Gli anni Duemila hanno segnato un tornate, perché diversi media indipendenti hanno dato voce e spazio alle famiglie delle vittime, e nel 2010 i giornali hanno finalmente accolto il termine di “violenza della polizia”, anche se sistematicamente virgolettato.

Nel 2019 Macron diceva «Non parlate di “repressione” o “violenza della polizia”; queste parole sono inaccettabili in uno Stato di diritto». Castaner, il suo primo Ministro all’epoca, sostenne ugualmente che la violenza della polizia non esiste.

Il movimento dei Gilets Jaunes ha fatto esplodere — come le granate sparate sui manifestanti — la questione. La luna era davvero troppo piena e almeno bisognava ammettere che c’è luce.

Per la prima volta si vedeva una violenza di quel tipo su una popolazione “bianca”, nel centro delle città. Simbolicamente, quello che ha fatto il movimento dei Gilet Jaunes è stato imponente.

Solo l’11 gennaio 2020 Le Monde ha parlato di “ciò che può essere descritto, senza virgolette, solo come violenza della polizia” (ne avevamo parlato qui).

La violenza della polizia in Francia è stata, per decenni, un privilegio di due categorie di persone: i militanti politici e gli abitanti cosiddetti “quartieri popolari”, termine che ingloba le zone povere, le banlieues quindi, ma quelle abitate da un certo tipo di popolazione e con un certo reddito. Perché anche Versailles è una banlieue.

In soldoni, le banlieue abitate da una sola classe sociale con una storia di migrazione.

Il sociologo Didier Fassin in un testo del 2011 (“La force de l’ordre. Une anthropologie de la police des quartiers”, Seuil, 2011) cita un episodio avvenuto nel 2005, quando un brigadiere urla al suo commando, prima di intervenire in una cité (i grandi agglomerati urbani francesi che sono spesso case popolari e quartieri ghetto) : «Abbiamo perso la guerra di Algeria. Quarant’anni fa abbiamo abbassato i pantaloni, non è certo oggi che lo rifaremo. Niente prigionieri!» (citato su “Orient XXI” da Rigouste).

La presenza armata della polizia in zone dove la delinquenza ha tassi più alti è stata una necessità, una scelta e una scusa per il controllo del territorio, che si accompagnava — e che si accompagna — a pratiche di controllo e ad abusi costanti. Significa più controlli, fatti anche più volte su una stessa persona, senza motivo, significa maleducazione, umiliazione, significa complicare la vita quotidiana, violenze più o meno grandi, spesso gratuite.

Perché la violenza delle forze dell’ordine non è (solo) un problema tecnico, è anche una questione di riconoscimento politico.

La polizia non si comporta allo stesso modo con tutti i manifestanti: alcuni sono più severamente controllati, trattenuti, disciplinati o repressi di altri. La polizia non si comporta nello stesso modo con tutti i cittadini né su tutti i territori.

Per Rigouste «la violenza della polizia non è il risultato di una perdita di controllo da parte dello Stato: è una tecnica di governo consolidata da tempo». Tecnica che è stata usata nelle colonie, perfezionata nelle banlieue e ora esportata al controllo delle piazze di tutta la popolazione del Paese, da un governo che è fatto da persone che non hanno una tradizione politica alle spalle, ma manageriale.

Oggi, con queste manifestazioni, vediamo una certa égalité. La polizia, nel contesto specifico della piazza ancora una volta, è violenta con tutti.

Rigouste aggiunge un tassello, in relazione al movimento dei Giles Jaunes e all’epoca che viviamo: «I recenti cambiamenti nella violenza della polizia sono parte integrante della ristrutturazione neoliberale iniziata nei primi anni ’70 con il lancio dei mercati globali della sicurezza e della difesa. Nuovi approcci alla gestione si sono evoluti per aumentare la produttività della polizia, che si è sempre più governata come un’”azienda” con “obiettivi” da raggiungere».

E poi ci sono scelte politiche e la storia di un Paese.

Se alziamo lo sguardo all’Europa, vediamo una Francia che va in direzione opposta rispetto alla “de-escalation” negli scontri di piazza iniziata negli anni Duemila quando Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, Inghilterra, Svizzera, Portogallo e Germania hanno iniziato ad incontrarsi per discutere la gestione delle piazze e il rapporto tra forze dell’ordine e cittadinanza. Il programma si chiamava Godiac (Good Practice for Dialogue and Communication as Strategic Principles for Policing Political Manifestations in Europe) e fu lanciato nel 2010. La Francia ha rifiutato di partecipare.

Per il sociologo Roché, coautore del documentario “Police attitude, 60 ans de maintien de l’ordre” (2020), le forze dell’ordine francesi non si accontentano di ignorare la dottrina della de-escalation: attuano, di fatto, una strategia di escalation — “graduale ma affermata”, sottolinea. “Dicono di usare una violenza ‘proporzionale’ a quella dei manifestanti, il che li porta, se gli tirano sassi o altri oggetti, a rispondere con gli LBD”, osserva Sebastian Roché.

«Nonostante le ripetute polemiche sulla violenza, questo approccio rimane al centro della cultura della polizia francese: nei centri di addestramento, sono quasi gli unici a simulare scenari essenzialmente ad alto rischio, vicini alla guerriglia urbana. Ciò è in contrasto con le strategie di “de-escalation” adottate da molte forze di polizia europee negli ultimi vent’anni». dice Anne Chemin su Le Monde.

La Francia, primo paese europeo per immigrazione dalla fine del Diciottesimo secolo e per tutto il Ventesimo, è un paese meticcio che non dice il suo nome. L’ideale universalita republicano si frantuma su una realtà che non riesca, da ormai tanto, a rappresentare.

E ed questo, quello che cerco di raccontare, perché lo vedo negli interstizi di cose lette, sentite, viste e annusate; è questo presente complesso, fatto di storia, fatto di politica, fatto di decisioni precise, di voglia di cambiamento, di identità e memoria.

La memoria, la storia, la lettura del presente: nel 2021 è uscito in Francia un documentario, in prima serata sulla TV nazionale. “Noirs en France”: racconta, come puo’ farlo un documentario in tv, storie di ordinario razzismo verso le popolazioni di origine africana in Francia. È stato accolto con applausi, era ora, signora mia. Quando si arriva alla questione delle lotte per i diritti civili e delle violenze istituzionali casca l’asino: le immagini sono quelle del Black Live matters.

Eppure. Nel 2016, Adama Traoré è morto dopo essere stato arrestato, “probabilmente” soffocato; nel 2020 Cédric Chouviat, cittadino francese di confessione musulmana, è morto dopo un controllo della polizia, soffocato, proprio come Floyd. Non siamo proporzionalmente ai livelli degli Stati Uniti (un migliaio di vittime all’anno, contro le 25 circa della Francia, che ha un quinto circa della popolazione, certo). Ma è un grosso grosso neo.

La questione delle violenze ai cui abbiamo assistito negli ultimi mesi, e in maniera particolare con il passaggio della legge sulla riforma delle pensioni con l’uso del 49.3 è in sé — a mio avviso, in una lettura che non ha la pretesa di essere globale — un esempio di diverse storie che fanno la complessità del presente.

Da un lato una lettura maldestra — a tratti distorta — delle istituzioni, che con il movimento dei Gilets Jaunes si sono trovati di fronte dei manifestanti con pratiche ben diverse da quelle dei cortei sindacali, storicamente installate, dichiarate e negoziate in anticipo. Organizzate.

Dall’altro lato va detto anche che i gruppi e/o gli individui che compongono quello che viene chiamato “black block” e “l’ultra-gauche” e che da ormai una ventina d’anni fa parte del paesaggio delle manifestazioni di piazza o dei diversi tipi di scontro — dal famoso “cortège de tête”, o dalle pratiche delle Zad (“Zones à défendre” della Francia) — sono composti spesso da persone abituate allo sconto di piazza, che non solo hanno almeno un minimo di formazione e di pratica, ma un’esperienza collettiva e a volte una volontà di mise en scène.

I Gilets Jaunes sono un’altra cosa, un altro tipo di popolazione.

E, aggiungo, verso i gilets jaunes c’è stato un atteggiamento misto al paternalismo nelle migliori ipotesi, al disprezzo nella peggiore: si tratta di persone che sono guardate con diffidenza e arroganza. Dal potere, e purtroppo, spesso anche dal contropotere.

Ora vediamo la polizia reprimere tutti quanti: non solo i cittadini “razializzati”, non solo i Gilets Jaunes, ma la popolazione tutta che va in piazza contro la riforma delle pensioni e contro il Governo Macron.

Quante sono le vittime delle violenze delle forze dell’ordine in Francia?

Il media indipendente (e militante) BastaMag ne conta 746 tra il 1977 e il 2020, questi dati contano ogni tipo decesso in contatto con la polizia (manifestazione, controlli di identità, custodia, furti, fughe, soffocamento… etc). Circa la metà sono avvenuti nelle grandi agglomerazioni della regione parigina, di Lione e Marsiglia. Territori che ospitano gran parte dei “quartieri difficili”e popolazioni con un passato legato alla storia di migrazione o coloniale. Il soggetto “medio” colpito da questa violenza è un uomo di meno di 26 anni, il cui nome ha consonanze africane o magrebine.

Un sondaggio Ifop di marzo 2023, dice che la fiducia dei francesi nelle forze dell’ordine si è gravemente deteriorata dal 1999, soprattutto tra i giovani. Solo il 42% degli intervistati dice avere “fiducia” nella polizia, rispetto al 53% del 1999; percentuale che scende al 28% tra i giovani sotto i 35 anni e al 19% tra i 18–24enni. Per quanto riguarda la violenza della polizia, il 56% dei francesi ritiene che “corrisponda alla realtà”. Tra questi, il 72% dei giovani tra i 18 e i 24 anni, ma solo il 43% degli ultrasessantacinquenni.

Ogni Paese deve fare i conti con la sua memoria. Ed è molto spesso penoso, duro, e dovrebbe comportare un ripensamento della struttura del potere. Il passato coloniale francese è fatto di vite consumate, storie personali dolorose, morte, orgoglio e umiliazione. Ferite, cicatrici e cancri che restano il grande nodo della discussione, in una società che è ben più avanti delle sue istituzioni. Il presente è quello che ho cercato di raccontare qui.

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