La Francia non laica | La “normalizzazione” alsaziana

Francesca Barca
8 min readMar 9, 2021

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Articolo uscito su Diario nel dicembre 2009

Moschea di Strasburgo (2009)

A Strasburgo ci sono oltre venti moschee, trenta chiese cattoliche, tredici chiese protestanti, nove sinagoghe e dieci templi buddisti. La città, capoluogo d’Alsazia e seconda capitale d’Europa, potrebbe rappresentare, secondo Roland Reis, il suo primo cittadino socialista, un esempio di coabitazione religiosa — soprattutto con l’Islam — in Europa. Il sindaco ha sostenuto questa tesi nel marzo scorso in occasione di un convegno a Fez sullo statuto giuridico dell’Islam in Europa.

Il dibattito sull’Islam in Europa non è affrontato, o almeno non direttamente: ci si limita a dibattare sull’entrata della Turchia nell’Ue. Chi si preoccupa dei 76 milioni di turchi potrebbero cambiare l’identità dell’Europa (o dell’Ue) dovrebbe pensare ai 14 milioni di musulmani — secondo uno studio della fondazione culturale tedesca ZentralInstitut Islam Archiv Deutschland — che già vivono nei Paesi Ue (non Europa, dove se si considerano gli oltre otto milioni dei Paesi di area Balcanica e i venti milioni delle Repubbliche della Federazione russa, si arriva a oltre quaranta). Il problema non tocca tutti i Paesi alla stessa maniera: importate sicuramente il caso della Francia, che vanta la più grande comunità islamica dell’Ue (5,5 milioni, almeno ufficiosamente). E proprio la Francia, quindi, Republique laique per eccellenza “propone”, un modello d’integrazione per l’Europa.

La separazione tra Chiesa e Stato in Alsazia è “imperfetta”: la legge del 1905 sulla laicità valida nella Francia de l’interieur (come dicono a Strasburgo) — non è qui applicabile perché in quel momento la regione era tedesca, bottino di guerra dopo la disfatta contro la Prussia del 1871. Qui, così come nel dipartimento della Mosella, vige ancora un diritto locale — che contiene il Sistema dei Culti Riconosciuti e alcune specificità amministrative — nel quale è stato poi integrato il Concordato che Napoleone Bonaparte ha firmato con il Vaticano nel 1801. Questo, con le successive modifiche, prevede un sistema di quattro culti riconosciuti (cattolico, protestante, calvinista e, successivamente, ebraico) integrati nel sistema statale.

Che significa? In Alsazia e Mosella le religioni “concordatarie” sono insegnate a scuola, i ministri del culto sono stipendiati dal Ministero degli Interni e ricevono una pensione dal Ministero dell’Economia, le sovvenzioni pubbliche alle religioni sono obbligatorie e esistono — unico in Francia — facoltà di teologia pubbliche dove si formano i ministri di culto. Il Presidente della Repubblica ha ancora, anche se solo formalmente, il potere di elezione dei vescovi francesi. Tutte queste cose erano parte della legislazione francese fino al dicembre 1905 quando il Paese ha adottato la legge sulla separazione tra la Chiesa e lo Stato inventando, di fatto, la laicità alla francese, che garantisce la libertà di tutti i culti e il libero esercizio (privato) della fede. La legge garantisce la libertà di coscienza e abolisce ogni religione di Stato.

A Strasburgo, che non era territorio francese a questa data, la legge non è applicata. La comunità islamica sarebbe esclusa da questo gioco ma, in virtù di “un’interpretazione allargata” del Concordato, la prossima costruzione della Grande Moschea di Strasburgo– così come da delibera comunale — godrà di una sovvenzione del 10% del costo totale dei lavori (858mila euro su 8,58 milioni) direttamente dalla città. A questo va aggiunto, mi conferma Saïd Aalla — Presidente della Fondation Grand Mosquée de Strasbourg — un 8% rispettivamente dal Consiglio regionale e Generale, per un totale del 26% delle spese. Il resto viene coperto con una sosttoscrizione pubblica tra fedeli e sostenitori: i fedeli sono stati, secondo Aalla, «molto generosi, nonostante le loro capacità modeste: ad ora in offerte sono entrati più di due milioni di euro, di cui 350mila solo durante il mese di Ramadan. Per quanto riguarda Paesi esteri abbiamo le promesse di Marocco, Arabia Saudita, Kuwait e Emirati Arabi. Per ora solo il Marocco ha, effettivamente, versato un milione di euro».

Olivier Bitz ha circa 35 anni ed è incaricato dei culti per il comune di Strasbourgo. Dal suo ufficio che guarda sull’Ill, l’affluente del Reno che attraversa la città, non ha difficoltà a confermare la visione del sindaco: «L’Alsazia ha una lunga tradizione di tolleranza: il fatto che gestiamo il tutto in maniera “tranquilla” ne fa, effettivamente una zona di “sperimentazione” in campo religioso».

Secondo Saïd Aalla nella sola Strasburgo ci sono tra i 12 e i 15mila mussulmani, 140mila in tutta la regione. Si tratta ovviamente di stime perché qui, come in nel resto della Francia, le statistiche “etniche” sono vietate. In città secondo Britz, contando i garage e i piccoli appartamenti, ci sono circa 27 moschee. La città “tratta” già l’Islam come un culto riconosciuto, anche se non lo è di diritto: l’integrazione formale nello statuto, al momento, non interessa — diplomaticamente — né il comune né la Fondazione per la Grande moschea. Aalla argormenta sostenendo che la cosa «richiederebbe la modifica di un arsenale giuridico complesso»; per Bitz la città si trova «già in una situazione di applicazione di fatto, verso l’Islam, delle regole concordatarie: utlizziamo già il “tariffario” per i culti riconusciti — una sorta di menù nel quale sono indicati le cifre che lo l’amministazione deve pagare per i vari interventi.

È la prima volta nella storia di Strasburgo. Non abbiamo bisogno di arrivare sino all’apertura al Concordato. Ovviamente nel Concordato rientra l’insegnamento religioso a scuola e lo stipendio dei ministri. Ma questo ha a che fare con la formazione degli imam».

La chiave, quindi, “dell’europeizzazione” sarebbe la formazione?

La risposta la ottengo all’università Marc Bloch di Strasburgo, dove nel dipartimento di teologia cattolica, circondato dal verde e dai cartelli di sciopero contro la riforma dell’università francese promossa dalla ministra Pécresse incontro François Boespflug, domenicano e professore di Storia Comparata delle Religioni: «Nel 1993 ho lanciato una petizione per creare una facoltà di teologia islamica con gli stessi diritti e le stesse obbligazioni delle altre: per insegnare qui bisogna avere tutti i titoli riconosciuti dallo Stato francese per gli istituti pubblici. Basta con i finanziamenti sotterranei: marocchini, egiziani o quant’altro…Perché una una facoltà di teologia islamica abbia senso nello Stato francese sono richieste materie che garantiscano un’apertura intellettuale ad altro che non sia il Corano o gli hadit: Storia comparata delle religioni e dei testi sacri, studio degli apocrifi del Corano, ecc..».

Il progetto non è giunto a buon fine perché, secondo il professore, è mancata una vera volontà da parte della comunità musulmana. Secondo Boespflug può darsi che i musulmani, così come gli ebrei — che hanno rifiutato di avere una facoltà — non se la sentissero di avere un corpo professorale che dovesse rispondere a «criteri universitari, che sono per forza laici. Forse è qui il problema: ammettere che qualcuno che non ha nulla a che fare con la fede islamica possa studiare il Corano con criteri puramente filologici».

Saïd Aalla, dalla Fondazione per la Grande Moschea è, invece, completamente d’accordo con l’idea. Mi dice che una facoltà di di teologia è una domanda dei mussulmani stessi e che la Fondazione la appoggia, oggi, come quindici anni fa: «Se vogliamo sviluppare un Islam europeo è assolutamente necessario che i nostri quadri religiosi si formino qui piuttosto che mandare le persone all’estero o, peggio, far venire persone dall’estero». Insiste sul fatto che è necessario che i ministri di culto conoscano l’importanza di un ambiente laico e multiculturale. «Se otteniamo questo ci sono delle possibilità reali di avere un Islam europeo: basato qui, nato qui, con una cultura integrata qui. Abbiamo bisogno di persone che hanno studiato qui e che capiscano la cultura europea e occidentale». Secondo Aalla: «Oggi nessuno è marocchino o algerino… siamo tutti francesi, tedeschi, belgi. Siamo tutti europei».

Quella della formazione degli imam è effettivamente una questione cruciale, allo stesso modo di quella della creazione dei luoghi di culto. Perché? Innanzitutto per i finanziamenti esteri. I Paesi di provenienza dei mussulmani finanziano le comunità islamiche in Europa.

Quella che è, evidentemente, una questione di controllo e di potere che impedisce una reale indipendenza, va spesso di pari passo con una questione di necessità: cattolici, protestanti ed ebrei sono sul suolo europeo da molto prima dell’Islam, integrati in tessuto economico e sociale che garantisce loro di avere già luoghi di culto e strutture associative. E qui, ancora una volta il caso francese può essere esplicativo per la realtà europea più generale. Rita Hermon-Belot, maitre de conference a l’Ecole des Haute Etudes en Sciences Sociales di Parigi e specialista di laicità, mi spiega che «durante tutto il Diciannovesimo secolo il Sistema dei culti Riconosciuti in vigore in Francia ha permesso la costruzione di tutto un patrimonio immobiliare — soprattutto per quel che riguarda gli edifici religiosi — che ha toccato tutti i principali culti, ma non l’Islam», perché la sua presenza nella Francia “metropolitana” era debole, concentrata soprattutto nelle ex colonie.

Hermon-Belot non ha difficoltà ad ammettere che, «effettivamente l’Islam si trova in una posizione di ineguaglianza: non giuridica o legale (perché la legge del 1905 prevede la neutralità dello Stato), ma sostanziale. Questo viene chiamato il problema della “ripresa, del recupero” dell’Islam rispetto agli altri culti». Questo le autorità francesi lo hanno capito, e da molti anni: in ultimo Nicolas Sarkozy, che come Ministro degli Interni dell’ultimo Governo Chirac — e dopo l’11 settembre — ha cominciato a parlare di «far uscire l’Islam dalle cantine». Per questo ha promosso nel 2003 la creazione del Consiglio Francese dei Culti Musulmani (Cfcm), organo votato a gestire le relazioni con lo Stato per quanto riguarda le questioni religiose (alimenti halal, fatwa, nomina di certi imam) che si articola, a livello regionale, nel Consiglio Regionale dei Culti Musulmani (Crcm), che opera come interlocutore dei poteri locali. La legittimità del Cfcm è comunque ripetutamente messa in discussioni dai musulmani stessi: non tutte le associazioni vi si riconoscono criticando la sua reale capacità di azione.

Di fatto questi organismi, mi spiega la Hermon-Belot, hanno aiutato la costruzione di moschee, soprattuto perché i poteri pubblici erano — e sono coscienti — del problema. Non potendo perciò finanziare la costruzione di luoghi di culto le sovvenzioni passando attraverso altri canali: concessione di terreni comunali, prestiti agevolati e finanziamenti, non alle associazioni di culto, ma a quelle “culturali”. La differenza con Strasburgo sembra piccola ma è rilevante e sostanziale: nei dipartimenti “concordatari” di Alsazia e Mosella lo Stato ha l’obbligo giuridico di finanziare direttamente i culti.

Insomma, la “laicità alla francese”, che spesso con occhio italico viene definita dispregiativemente“laicismo”, è una continua ricerca di equilibrio e di equidistanza. E il caso alsaziano, che nel resto della Francia, è considerato eccessivo non è altro, agli occhi di un’osservatore esterno, che una sorta di sistema rafforzato di quello che succede nel resto del Paese: qui le religioni hanno sì, enormi libertà e aiuti, ma anche obblighi chiari e un inquadramento statale preciso. La contropartita a uno stipendio, alle sovvenzioni, alle università è uno Stato che controlla i programmi con i quali i ministri di culto sono formati e con le quali insegnano. Ovviamente a Strasburgo non tutti sono d’accordo ed esistono piccole e accanite associazioni, come Laïcité d’accord, che chiedono, secondo le parole del suo presidente, Bernard Anclin, «l’integrazione dell’Alsazia e della Mosella nel sistema della 1905».

L’impressione che resta lasciando Strasburgo è che la “non laicità” della regione non sia altro che una “super laicità” e che in “France de l’Interieur” non lo abbiano capito. Tranne forse proprio Nicolas Sarkozy, che nel suo progetto di “uscita dell’Islam dalle cantine” non esita a parlare di “Islam repubblicano”. Un Islam così europeo, così statale, cosi laico… e cosi controllato.

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