La Francia che dice “no” (a Macron)
C’è un movimento di dissenso in Francia. Che si alimenta e cresce da tempo. Forte o debole, silenzioso o rumoroso, a volte discontinuo. Certamente diverso e multiforme, nelle pratiche e nelle visioni. Movimento che ha trovato, mi pare, un punto di incontro semplice, facile da capire e universale: le pensioni.
Due anni in più di lavoro, da 62 a 64 anni. Non per forza pagato meglio, o non per tutti (in particolare le donne e i precari). Due anni di vita. Semplicemente due anni di vita. E che sarà mai?
In gioco — e questo già da prima della questione delle pensioni — c’è la legittimità di Macron, del suo governo. E del mondo che Macron rappresenta.
Eletto con il 58 per cento dei voti al secondo turno (18.768639 voti, il doppio di quelli che ha preso al primo turno, su un corpo votante di 48.752339 persone), ha ricevuto la voce di chi voleva fare barrage a Marine Le Pen, in un Paese spaccato che si è mobilitato per dare una chance alla France Insoumise di Mélenchon, che non ha passato il secondo turno per uno sputo.
Un Paese dove — come in tanti altri, e dovremmo ascoltare, parlarne, contare, ripensare — l’astensione ha toccato il 28 per cento del corpo elettorale (12,8 milioni di astensioni e oltre 700mila schede bianche o nulle, oltre 13 milioni di persone). La matematica e i testi danno legittimità certamente alla maggioranza, è innegabile, è fattuale.
Ma è reale? Cosa e chi rappresenta?
Queste mobilitazioni contro la riforma delle pensioni fanno eco, nella memoria collettiva e nella pratica, a quelle del 1995 contro un’altra riforma, sempre delle pensioni. Ed era dal 1995 che l’intersindacale non si riuniva.
Le vorrei mettere anche in fila con le proteste, fortissime, che hanno bloccato Parigi nel 2019, sempre per una riforma delle pensioni, sempre dello stesso governo.
Gli scioperi nei trasporti sono stati violenti e continui per una riforma il cui testo era meno comprensibile perché pareva toccare solo alcuni settori: i lavoratori dei trasporti pubblici soprattutto, per tagliare in parte i vantaggi del loro statuto, vantaggi, non privilegi. Perché le parole sono importanti: i vantaggi di lavori altamente usuranti, come una pensione anticipata o stipendi e orari migliori sono vantaggi, che permettono di accettare e impegnarsi in quei posti. Privilegio vuol dire un’altra cosa.
Queste proteste, quelle del 2019, che sono state messe in stand by da una crisi sanitaria mondiale. Così come le piazze dei gilet jaunes, represse nel sangue. Ricordiamo le mani e gli occhi persi dai manifestanti e i richiami internazionali alla Francia. 36 i mutilanti permanenti, numerosi i feriti gravi.
La crisi del Covid è stata pagata con il sangue, il sudore e la pazienza di chi non ha voce in capitolo nelle discussioni e applicazioni delle politiche — uso una parolaccia — neoliberali che hanno tagliato fondi pubblici alla salute, ai trasporti, all’assistenza, all’istruzione. Che hanno avuto come contraltare dalla politica il richiamo alla responsabilità individuale, in un discorso pubblico che ha fatto passare la crisi sanitaria e la pandemia come responsabilità di chi porta a spasso il cane.
I cittadini e le cittadine francesi non hanno mai «votato per lo smantellamento delle Poste, dell’università o delle linee ferroviarie di piccole e medie dimensioni. In tutti i casi, il deterioramento della qualità dei servizi forniti ha costretto gli utenti a ricorrere a servizi sostitutivi: tecnologia digitale, car pooling, istruzione superiore privata. O i risparmi per la pensione. Servizi ai quali le persone si stanno abituando, o almeno rassegnando», dice su Le Monde Diplomatique Grégory Rzepski, alto funzionario e giornalista.
La nuova riforma delle pensioni, quella votata con l’articolo 49.3 della Costituzione è, come dicevo, più semplice da capire del testo del 2019. Tutti e tutte devono lavorare di più. Perché non puo’ fatto diversamente. Perché tutti devono sacrificarsi.
Esattamente nello stesso momento in cui escono i dati sull’aumento dei dividendi delle imprese, nel mondo. E la Francia ha visto un aumento, il migliore in Europa: 59,8 miliardi di euro (+4,6%), per TotalEnergies e LVMH i migliori pagatori di dividendi. Il 95% delle società francesi (dati Janus Henderson, fonte OuestFrance) ha aumentato o mantenuto i dividendi nel 2022.
In parallelo, l’inflazione esplode, aumenta la povertà, aumentano le precarietà lavorative, abitative, alimentari.
In parallelo, i sondaggi dicono che i francesi e le francesi sono largamente contrari a questa riforma.
I sondaggi dall’inizio di questo movimento, sono sempre stati largamente favorevoli al no, mai meno del 55 per cento, con picchi al 70 in alcuni periodi.
Gli ultimi, raccolti dopo il voto delle mozioni di censura (non passate, ma che raccoglievano il 68 per cento dell’adesione e che implicavano un’eventuale caduta del governo) dicevano che i 58 per cento delle persone intervistate sostiene i blocchi e gli scioperi. Dati che salgono secondo le categorie 76% degli operai e degli impiegati, con picchi dell’88 per cento tra gli elettori di Mélenchon e del 68 per cento di quelli della Le Pen.
E del 24 per cento tra gli elettori di Macron (non poco vista la percentuale di pensionati che hanno eletto l’attuale presidente della repubblica).
La forzatura democratica — e costituzionalmente legale — messa in atto dal governo di Emmanuel Macron, che ha fatto passare una riforma altamente impopolare grazie all’articolo 49.3 della Costituzione, è un altro sputo.
In sé, il 49.3 (spiegato bene qui, che permette di far passare un testo senza il voto del Parlamento) è stato usato spesso, troppo. Undici volte solo dall’ex socialista Élisabeth Borne, che detiene il record dell’uso dell’articolo dalla riforma costituzionale del 2008, che pertanto ne limiterebbe il ricorso.
Da qui le critiche, tante, non solo dei movimenti sociali, rispetto all’uso di questo strumento.
Il voto, inoltre, arrivato dopo settimane dure, dense e piene. E dopo anni di profonda crisi sociale hanno lasciato due parole: collera e umiliazione.
«Siamo di fronte a una crisi di regime, perché è il principio stesso della rappresentanza del popolo da parte di rappresentanti eletti, quello ereditato dal 1789 e su cui si basano le nostre istituzioni, a essere messo in discussione. L’idea stessa del voto si sta esaurendo, non è più sufficiente a creare un legame duraturo» dice su Le Monde Dominique Rousseau, professore di diritto pubblico all’Università di Parigi-I-Panthéon-Sorbonne. «Il 49.3 è la traduzione istituzionale dell’adagio ‘Non è la strada che governa’, ma da diversi anni ormai c’è una richiesta da parte dei cittadini di essere più coinvolti. Questo crea qualcosa che va oltre la crisi politica».
Macron è contento: “Usare la Costituzione per approvare una riforma è sempre una buona cosa se si vuole essere rispettosi delle nostre istituzioni”, ha detto il Presidente della Repubblica durante un incontro con la sua maggioranza. Macron avrebbe voluto farsi capire meglio, dice, “ma non potevamo fare diversamente”.
Avrebbe potuto farsi capire meglio o si è fatto capire perfettamente?
Per parafrasare De Gregori, non c’è niente da capire. Capire Macron significa accettare il mondo che con lui è imposto. Significa non esercitare senso critico. Significa sacrificio. Ennesimo.
Ed è sempre uno sputo la questione. Uno sputo in faccia alle piazze, uno sputo in faccia alla fatica e agli sforzi. L’arroganza è la linea rossa che, all’altezza del mio sguardo, sento nelle discussioni, negli editoriali, alle manifestazioni. Durante le cene o alla pausa caffè.
Cosa rappresentano queste proteste? Un’idea di un altro mondo possibile, un mondo dove il lavoro non solo è per tutti, dove non è centrale nella vita, dove si rivendica il diritto al tempo libero, al divertimento, al riposo, all’amore. Alla vita insomma.
Sono 292 persone arrestate (quasi tutte rilasciate) giovedì 16 marzo, 60 venerdì 17 marzo; 287 lunedì 20 marzo. Amnesty International segnala gli abusi, il prefetto (e quindi lo Stato) minimizza. In totale dal 16 marzo oltre 800 persone sono state in fermo di polizia.
«Le sommosse non prevalgono sui rappresentanti del popolo» e «la folla non ha legittimità di fronte al popolo che si esprime sovranamente attraverso i suoi rappresentanti eletti», ha detto Macron, citato da Le Monde. Da un lato c’è la democrazia del “popolo” che ha votato gli eletti, che però non avevano la maggioranza all’Assemblea per far passare la legge, e dall’altra le “folle” ovvero milioni di cittadini e cittadine in piazza.
Le parole sono importanti e bisogna ricentrarne il senso perché i significati vengono fatti scivolare, cambiare, trasformare. Bisogna ricentrarne il senso per capirsi, collettivamente.
Mettere in opposizione i due termini — popolo e folle — è giocare sporco, è rifiutare non solo di affrontare la realtà, ma di negare quella che ha di fronte a sé chi ti parla. L’arroganza e la violenza del lessico del potere.
La Francia cade a pezzi. Gli ospedali e il welfare sono dissanguati dai tagli, la Francia di oggi è quella dei deserti medicali, degli scioperi di medici e infermieri, degli assistenti sanitari, degli insegnanti, degli studenti, del settore dell’energia e dei trasporti. E questo da prima di questa riforma.
Che vogliono i francesi e le francesi? Vogliono dire la loro, vogliono dire “no” a Macron e al suo mondo per alcuni, a un sistema (e ripeto la parolaccia) neoliberale, in un mondo che ha preso una direzione sempre più violenta e mortale. Dove chi non aderisce al lessico imposto dello sforzo, del debito è messo a tacere.
La realtà è immensamente complessa, più di queste parole, più di tante analisi, molto di più degli slogan. Le semplificazioni vengono fatte da entrambi i lati della barricata simbolica. Ma non con gli stessi intenti.
Ho partecipato a tutti gli scioperi, tranne il primo, dall’inizio delle proteste. Sono stata a diversi assembramenti e a qualche assemblea generale improvvisata. Ho visto spaccare qualche vetrina, dare fuoco a dei cassonetti.
Ho visto soprattutto gente camminare, ballare, mangiare, cantare, discutere. Sono andata con amici e amiche, giornalisti e giornaliste, insegnanti, operai, lavoratori e lavoratrici dello spettacolo, medici, operatori e operatrici sociali.
Sono stata a Place de la Concorde e à Place de la République. C’erano gli studenti che ballavano, che cantavano, c’erano gli insegnanti e i pensionati. E sì, c’erano anche i black bloc che facevano un falò con i resti di un cantiere. Tra i cartelli presenti a Place de la Concorde la sera del voto c’era un semplice “Vivre”. Tutto li.
Il dopo voto ha segnato una svolta, nei numeri ( 1,08 milioni di persone secondo la polizia, 3,5 secondo la CGT) e anche negli atti di violenza o vandalismo, in tutta Francia. Tantissimi gli studenti.
Parigi — la Francia tutta — è nervosa, stanca, umiliata. Divisa in due, in tre o in cinque mondi possibili, le cui proiezioni collettive sono spaccate. In un Paese che ha mantenuto la tradizione della piazza, la Francia va in piazza.
La Francia prova a dire “no”, parla semplicemente. E fa rumore.