Note di confinement #7: la marcia e il passo
Cammino, normalmente, quotidianamente. Cammino in media 35 chilometri a settimana, in città. A Aubervilliers, banlieue parigina alle porte di Parigi dove vivo, prendo i mezzi lo stretto necessario: quando non ho scelta, quando sono in ritardo, quando piove. Prendo la metro per andare al lavoro tre volte a settimana: la scuola dove insegno è a 15 chilometri da casa mia, all’opposto della città, spazialmente e socialmente.
Cammino perché non posso farne a meno. Cammino perché il ritmo dei passi cadenza i pensieri — mi era uscito “pazzi” invece di “passi”, non c’è lapsus freudiano più azzeccato. Camminare mi rilassa, mette pace, mi lascia il tempo di guardare, di osservare, di leggere sui muri. Mi fido talmente delle mie gambe che non devo controllare, verificare, pesare. Sono al sicuro quando cammino, le gambe e i piedi vanno da sé.
Cammino perché è un momento solo per me, cammino perché il passo annichilisce le nevrosi, le inquadra, le contiene; cammino perché non posso fare altro che camminare; la marcia è un tempo sospeso, posso ascoltare i miei passi, pensare e non pensare, svuotare, sedare, respirare. Un po’ come il respiro fissato sul naso di chi cerca di entrare in meditazione.
Cammino perché mi faccio i cazzi miei, insomma, molto banalmente.
Da quando in Francia il 16 marzo è entrata in vigore la quarantena — il confinement si chiama qui; il confino, l’ho tradotto, sbagliandomi o no, la prima volta che l’ho raccontato — è consentita una “leggera e breve attività sportiva”, un’ora al massimo, ad un raggio di un chilometro dal domicilio.
Questo restringe di molto il mio raggio. Lo obbliga a cerchi.
Quindi arrivo alla chiesa di Aubervilliers, Notre-Dame des Vertus: 1,2 km dalla porta di casa mia. Fuori appena il perimetro massimo consentito. Notre-Dame des Vertus è di fronte al palazzo del comune: è aperta durante questo periodo e in maniera più o meno continuata viene organizzata una venerazione eucaristica, una staffetta di persone sole che si danno il cambio per adorare l’ostia consacrata, per giorni. Si può entrare, non più di 20 alla volta, secondo le disposizioni per i luoghi di culto in vigore.
Entro in chiesa, mi siedo in un posto a caso in fondo per qualche minuto, giusto perché è aperta, giusto perché si può, per un silenzio diverso, per una luce diversa, perché ho tempo.
Poi, tutti i giorni, vago a caso, tra i vicoli intorno al centro, tutto è chiuso tranne le boulagerie e la lavanderia automatica. Incrocio sempre qualcuno, chi con la spesa, chi con la carrozzina. Chi, come me, gironzola silenzioso, imbarazzato, annoiato.
Passo, quasi tutti i giorni dalla strada dove un liutaio ha il suo atelier: un cartello in legno serigrafato lo indica all’inizio del vicolo. Chiuso anche lui come il resto, la strada che lo costeggia è graffittata: mi fermo a guardarli quasi ogni volta, non sono incredibili, ma sono i graffiti più belli di Aubervilliers (secondo la mia personalissima recensione, tutt’ora in corso).
Da lì giro, a caso, in strade più o meno uguali, fatte di abitazioni in mattoni, officine, boulagerie, negozi abbandonati, capannoni industriali e complessi abitatativi in costruzione in previsione dell’esplosione immobiliare di Aubervilliers. Con l’espansione dell’area urbana parigina — il progetto del Grand Paris — le banlieue più vicine verranno potenziate da altre metro. Ad Aubervilliers arriva già la 7; per il 2021 è prevista la 12 nella piazza del comune.
Aubervillers è, tra le banlieue vicine, così tanto vicine a Parigi, quella più a buon mercato (dove “buon mercato” vuol dire 4/5mila euro al metro quadrato), rispetto ai prezzi parigini (oltre i 10mila euro). Questi prezzi sono dovuti al fatto che siamo in uno dei dipartimenti più poveri di Francia in termini di Pil procapite, con tutte le conseguenze di questa situazione. Il 40% delle case del comune sono considerate insalubri e questa è una manna per chi investe in un mercato che esploderà (coronavirus permettendo) nei prossimi anni.
Cerco scritte sui muri che nominino il coronavirus, ancora nulla. Tornando passo spesso dalla rue Barbusse, fatta per metà di case che erano probabilmente borghi operai (basse, con piccolo giardino e in mattoni), e per l’altra metà di immense case popolari ad affitto calmierato: ragazzi più o meno giovani continuano mestamente il loro business in basso ai casermoni. Qui si trovano le droghe più o meno leggere; le sigarette di contrabbando continuano ad essere vendute a prossimità della metro, qualche angolo più in là rispetto all’uscita, dove ora sono parcheggiate le camionette della polizia che controllano le autocerticazioni di movimento sull’arteria principale che conduce, da un lato Parigi, dall’altro alla Courneuve. O, lateralmente a Pantin e, dal mio lato, a Aubervilliers. Il metrò 4 Chemins, appunto.
Faccio questo giro, con qualche variante, ma più o meno lo stesso, da due settimane. Perdendomi comunque, perché mi deve essere stato asportato il senso dell’orientamento all’infanzia: mi perdo in un raggio di 150 metri, ritrovandomi per forza, perché le strada sono venti in tutto. Il mio giro dura un’ora, a volte rubo 15 minuti, altre volte ne rubo 30.
Sì, resto fuori casa più del consentito. Un po’ a disagio, un po’ a cazzomene, un po’ incazzata, un po’ schifata. Un coprifuoco mentale, che vivi con un po’ di ansia. Come se fosse un atto ribelle, e non lo è. Come se fosse un atto irresponsabile. E non lo è. È banale, normale, noioso e nevrotico. La passeggiata, l’atto da pensionato per eccellenza (sì, lo so, dopo l’osservazione nei cantieri). Eppure. Eppure ti senti in torto.
Eppoi c’è una questione di semplicità per me. So dove sono i controlli della polizia ed è facile evitarli. E, soprattutto, non fermano me: donna e bianca. Per le forze dell’ordine a Aubervilliers io sono trasparente. Fa schifo ma è così.
Ma i controlli vengono fatti e gli abusi sono molteplici.
Dopo 10 giorni di confinement (ultimi dati che ho trovato) sono stati fatti 3,7 milioni di controlli e verbalizzate 225mila persone in tutta la Francia. I dati usciti dicono che il 10% delle multe in Francia a chi non rispetta le regole del confinement sono state fatte in Seine-Saint-Denis, dove si trova Aubervilliers, appunto.
La Seine-Saint-Denis è un dipartimento francese che si trova a nord di Parigi. È il quinto dipartimento più popolato di Francia e il più giovane per età media della popolazione. Ha storicamente una tradizione rossa, specialmente in alcune città, feudi della sinistra dalla Prima Guerra mondiale (è il caso, tra gli altri di Aubervilliers o di Saint-Denis). Nel dipartimento ci sono diverse grandi azienda (Veolia, Vinci, BNP Paribas, SFR…) e un aeroporto (Charles de Gaulle). Ciononostante è il dipartimento con il livello di vita più basso del Paese: 3 abitanti su 10 vivono al di sotto della soglia di povertà (il tasso di povertà è del 26,9% mentre la media francese è del 14,3%) e il tasso di criminalità è il più alto di Francia.
Da 10 giorni a questa parte c’è un florilegio di articoli sul come il confinement è “impossibile” in certe zone o in alcuni quartieri della capitale dove ancora vivono classi “popolari” perché la “gente non capisce”. Si tratta di quartieri dove vivono soprattutto comunità di origine immigrata.
Il tweet qui sotto lo racconta, meglio di me: «Ahmed è indisciplinato, Lucy invece non ha resistito al richiamo di una giornata di sole». Stesso giornale, stesso tema: a sinistra si racconta chi ha violato il confinement in Seine-Saint-Denis (zona di cui ho parlato qui) dove è stato registrato un numero record di multe perché la popolazione è “indisciplinata”; a destra chi viola il confinement a Parigi lo fa perché “eh, è dura restare in casa”
Nel mio giro, per ora, ho visto solo tre banderoles, tre manifesti appesi alle finestre, uno è mio, uno del mio vicino che non conosco personalmente. E uno trovato tra casa mia e il comune: “Più soldi all’ospedale pubblico /Non al Cac40, né al Medef (la Confindustria francese)”.